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Ultimo arrivò Grasso. Il sistema politico prova a blindarsi

di Dante Barontini

Con la presentazione di “Liberi e uguali”, con un altro leader preso dall’antimafia, si completa il quadro dell’”offerta politica” di regime.

Per spiegare bene questa definizione conviene soffermarsi un attimo sulla descrizione puntuale di questo quadro.

Fin qui il pilastro del sistema partitico italiano è stato il Pd, che con l’ascesa di Matteo Renzi sembrava in grado di monopolizzare o quasi il consenso, tenendo insieme parte dei ceti popolari storicamente impiccati alla rappresentazione della “sinistra” socialdemocratica di provenienza Pci diventata nel tempo il nerbo dell’establishment liberista italiano; con la benedizione e la direzione discreta dell’Unione Europea.

Tutto appariva curato con estrema attenzione: a) un leader giovane e spiazzante, abile nel “rottamare” velocemente un quadro dirigente inchiodato ad antiche guerre tra clan, usurato da sconfitte clamorose e vittorie dimezzate; b) un’immagine di conseguenza “giovane”, efficientista, iper-modernista, social, post-ideologica, europeista e ultraliberista, ma con su stampigliato il marchio “di sinistra”; c) un’insieme di “riforme” sociali e istituzionali scritte a Bruxelles e imposte con la forza di un caterpillar a un Parlamento di nominati ansiosi solo di completare la legislatura; d) sindacati complici e totalmente immobili davanti alla demolizione del sistema dei diritti su cui avevano fondato la propria legittimità.

In effetti il capitale multinazionale europeo e quel che resta dell’imprenditoria “nazionale” non potevano sperare di meglio. Negli anni di Renzi – così come era in parte avvenuto in quelli di Prodi e D’Alema – sono passate senza colpo ferire “riforme” che non erano riusciti a far approvatre dai governi Berlusconi (dall’abolizione dell’art. 18 alla precarizzazione totale dei contratti di lavoro, fino al limite dell’eliminazione del diritto di sciopero).

Poi il contafrottole di Rignano ha voluto esagerare, mostrando ansie di monopolio del potere che difficilmente – in un paese frammentato anche a livello di “classi dirigenti” – possono essere vincenti. Soprattutto, il programma di “riforme” suggeritogli dalla Ue ha impoverito e scombussolato molto rapidamente una quota rilevante di popolazione, in età di lavoro e non, che gli si è rivoltata progressivamente contro. Fino ad esplodere in un “NO” liberatorio al referendum costituzionale dello scorso anno, segnando l’inizio della sua rapidissima parabola discendente.

Il redivivo Berlusconi deve la sua nuova centralità proprio al fallimento dell’allievo più giovane (e squattrinato, al confronto). Forza Italia è stata salvata dalla messa in liquidazione per l’evidente improponibilità come alternative di governo delle due altre “forze” di destra (Meloni e Salvini). La prima incapace di uscire dal solco del neofascismo ripulito un po’ troppo ruspante, l’altro impossibilitato a proporsi come forza “nazionale”, nonostante tutti gli sforzi fatti – dal sistema mediatico – per sollevarlo dall’eredità nordista, razzista, antimeridionale.

L’estrema destra, da CasaPound in giù, è solo uno fantoccio gonfiato a stagioni alterne per spaventare i “democratici perbene”. Se si pensa a quanti giornalisti di obbedienza “democratica” (in senso renziano) si son dati da fare per sdoganare qualche squadraccia contigua alla malavita più o meno organizzata (Ostia è solo uno degli esempi possibili) si vede chiaramente un disegno unitario: il “disagio sociale” deve avere quelle fattezze, di modo che lo si possa esorcizzare come “pericolo”, ma mai riconoscerlo come problema da risolvere. Il neofascismo, solito servo ottuso del capitale, assume senza sforzo questa funzione ancillare e rassicurante il potere.

Il Movimento 5 Stelle – utilissimo nello smantellamento del vecchio sistema partitico – si è rivelato però inattendibile alla prova del governo. Dunque, nonostante la virata centrista e neoliberista imposta dalla scelta di Luigi Di Maio come temporaneo “leader” pubblico, non ha struttura e qualità per diventare forza di governo. Tanto più che la sua unica prova di credibilità popolare sta nel non allearsi con nessun’altra forza. Il giorno che dovesse piegarsi a un governo di coalizione, anche in posizione egemonica, romperebbe la muraglia che l’ha fin qui tenuto al riparo del “rancore popolare” nei confronti della “politica”, sapientemente costruita come l’unico problema di questo paese in crisi. Uno strumento inservibile, insomma, sia per gestire l’ordine economico-sociale attuale, sia per cambiarne i connotati fondamentali (non ha e non ha mai avuto un “programma” per rappresentare interessi sociali precisi).

Mancava una struttura politica in grado di riportare all’ovile dell’establishment quel poco o tanto di disagio sociale o idealità progressista che ancora è presente in larghe fette della società italiana, svuotando i possibili bacini elettorali di formazioni “a sinistra”. A questo – e a nient’altro – serve la formazione che sbandiera Pietro Grasso come “candidato premier”. A blindare il sistema politico intorno all'”europeismo” servile.

Il quadro delle “alternative” sullo scaffale della politica parlamentare è dunque ora completo. Noi notiamo che tutte queste diverse etichette sono apposte su scatole di forma differente, ma di identico contenuto. E ciò che le rende sostanzialmente uguali è proprio ciò di cui non parlano: il recinto delle decisioni da prendere, chiunque componga il prossimo governo italiano, è rigidamente fissato dagli organismo sovranazionali, a cominciare dall’Unione Europea.

Di questo, sono tutti consapevoli; anche perché sia Moscovici che Dombrovskis – commissario europeo all’economia e vicepresidente della Commissione – oltre a Jirky Katainen (neopresidente dell’Eurogruppo) hanno spiegato per giorni che la legge di stabilità del governo Gentiloni, pur non rispettando integralmente gli impegni fissati nei trattati, è stata lasciata passare per evitare di alimentare i sentimenti “euroscettici” nella popolazione. Ma a maggio, hanno promesso, calerà la mannaia sui conti pubblici per cominciare a ridurre il debito pubblico (dal 133 al 60%, in venti anni) come previsto dal Fiscal Compact.

Il problema è che “l’offerta politica” non vede presente nessuna forza che si preoccupi minimamente di contrastare le istituzioni sovranazionali. Anche chi ci aveva costruito una fetta di consenso (grillini, leghisti, fascisti in genere – ripuliti o meno) ha da tempo accantonato ogni critica all’euro o alle regole di Bruxelles. Non a caso i “più estremisti” cercano di acchiappare voti agitando lo spettro dell’”invasione extracomunitaria”. Un terreno su cui, peraltro, un ministro come Minniti si mostra assai più radicale e spietato.

L’offerta politica si presenta perciò priva di differenze rilevanti, sul piano ideale e programmatico. E allora le idee o i programmi finiscono sullo sfondo, coperti da un po’ di artifici retorici e soprattutto dalle facce. Renzi, Grasso, Berlusconi, Di Maio, Salvini e Meloni sono puri nomi che dovrebbero far “identificare” gli elettori con qualcosa che non si può neanche dire chiaramente.

Sono nomi fatti per ingannare. Basta dirne una sola: si presentano come candidati premier a una elezione con sistema proporzionale, che garantirà – secondo tutte le previsioni – un “governo di coalizione” che nessuno di loro potrà guidare. Parlano come se vigesse un sistema maggioritario, con schieramenti contrapposti (e concorrenza al centro…), mentre sono tutti già preparati a sedersi intorno allo stesso tavolo, con esclusioni minime (Salvini e Meloni da un lato, Grasso dall’altro, Di Maio in ogni caso) a seconda di quale coalizione avrà la prevalenza formale. Ma l’asse centrale del nuovo esecutivo – fatte salve sorprese così eccezionali da non poter essere neppure immaginate – sarà rappresentato da Pd e Berlusconi, con le aggiunte che si renderanno necessarie per fare una maggioranza.

E’ per questo motivo che “il Brancaccio” è fallito. Doveva rappresentare la solita cerniera tra “sinistra di governo” e “sinistra radicale”, per raccogliere voti che sarebbero altrimenti andati persi; ma le frattaglie post-piddine hanno valutato del tutto inutile scendere a patti (impossibili da rispettare, peraltro) con Rifondazione. Si sente in sottofondo la voce di D’Alema che ripete ancora una volta “tanto per noi dovranno votare, no?”

Chi nutre nostalgie per quel percorso non ha capito – o non vuole? – che un intero modo di “far politica”, dannoso e suicida, in voga da 25 anni a questa parte, è giunto al capolinea. E’ morto e non può essere resuscitato neanche dal dr. Frankenstein.

Il nostro blocco sociale ha un bisogno vitale di rappresentanza politica, di una identità collettiva nazionale in grado di far convergere lotte territoriali, sindacali, politiche quasi sempre di carattere solo locale o settoriale. Secondo ogni logica, la eventuale ricerca di una rappresentanza elettorale dovrebbe discendere dal consolidamento di quell’identità collettiva.

Ma in Italia – da sempre – le cose avvengono secondo una logica bizzarra. E dunque ci troviamo davanti alla possibilità di far emergere la trama di una rappresentanza politica nel vivo di una battaglia “solo” elettorale, grazie alla proposta avanzata dai compagni di Je So Pazzo (#poterealpopolo).

Perché accada è fondamentale che ciò che abbiamo chiamato il vivo non si faccia trascinare sottoterra dal morto.

Per questo e null’altro Eurostop è della partita.

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