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linkiesta

Gerusalemme capitale d'Israele

La mossa di Trump contro Iran e Russia

di Fulvio Scaglione

L'ambasciata americana a Gerusalemme è parte di una strategia per avvicinare Israele all'Arabia Saudita in opposizione a Iran e Libano. I negoziati di pace con i palestinesi sarebbero il prossimo passo dell'amministrazione Trump

Se nei prossimi giorni, come molti indizi fanno supporre, Donald Trump annuncerà lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, avremo la definitiva conferma che è iniziato il secondo tempo della guerra di Siria. La decisione, se sarà presa, non sarà certo una “trumpata” ma una delle mosse ben calibrate con cui l’amministrazione Usa sta costruendo l’asse necessario a recuperare lo status di potenza dominante in Medio Oriente, messo in forte crisi dall’offensiva Russa, dal dilagare dell’influenza politico-religiosa dell’Iran e dalla compromissione dei rapporti con la Turchia.

Per afferrare i contorni del quadro, occorre in primo luogo ricostruire la “questione Gerusalemme”. Vincendo la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, Israele ottenne anche il controllo di Gerusalemme Est, l’altra metà della città che era era stata divisa in due nel 1948, dalla proclamazione dello Stato di Israele e dalla guerra che ne era seguita. Nel 1967 Israele dichiarò alle Nazioni Unite che non si trattava di un’annessione ma solo di una “integrazione giuridica e amministrativa”.

Atteggiamento che cambiò rapidamente, quando la Corte suprema israeliana stabilì che Gerusalemme Est era diventata “parte integrante” dello Stato ebraico. Nel 1980, infine, il Parlamento di Israele approvò la Legge per Gerusalemme come parte della Legge fondamentale dello Stato ebraico, dichiarando Gerusalemme capitale unificata dello Stato ebraico.

Per il resto del mondo, però, tutto questo non ha alcun valore. L’Onu considera Gerusalemme Est “territorio occupato”, una posizione che dura dal 1947, quando fu approvata la Risoluzione 181 che dice: “La città di Gerusalemme resterà un corpus separatum retto da un regime speciale internazionale e amministrato dall’Onu”. Idea ribadita sempre, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale del 1949, dal Rapporto speciale sui diritti dei palestinesi del 1979, dalla Risoluzione 63/30 del 2009 e da altre sei Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, compresa la 478 del 1980 che definiva la Legge per Gerusalemme approvata dalla Knesset “una violazione del diritto internazionale”. Dal punto di vista della legittimità internazionale, insomma, l’annessione israeliana di Gerusalemme Est vale quanto l’annessione russa della Crimea: nulla.

 

L’annessione israeliana di Gerusalemme Est vale quanto l’annessione russa della Crimea: nulla

Così la pensa, con qualche sfumatura, in pratica tutto il mondo, con le eccezioni della Repubblica Ceca e di Vanuatu. Usa, Ue, Russia, Vaticano: tutti fermi sul corpus separatum fino all’arrivo di Donald Trump. Che non a caso ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, un ebreo ortodosso che, con un gesto almeno inconsueto per un diplomatico, come prima cosa è andato a pregare al Muro del Pianto.

È chiaro che Trump, se prenderà la decisione di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv (dove restano quelle di tutti gli altri Paesi) a Gerusalemme, riconoscerà l’annessione di Gerusalemme Est, renderà legittimi gli insediamenti e cambierà, grazie alla potenza americana, il quadro internazionale. Ma perché proprio ora? E a che cosa serve questa mossa?

Non è un caso se la “questione Gerusalemme” si riapre proprio mentre la stessa amministrazione Usa annuncia la presentazione, all’inizio del 2018, di un piano di pace tra Israele e palestinesi. Se spostare l’ambasciata serve a rafforzare Israele, il piano di pace dovrebbe rinsaldare la posizione dell’Arabia Saudita, che infatti ne è grande sponsor. I sauditi, infatti, non vedono l’ora di poter stipulare un’alleanza vera (quella di fatto c’è già) con Israele, ovviamente in funzione anti-Iran. Ma per farlo, devono concedere qualcosa al mondo arabo e, soprattutto, devono evitare di passare per traditori della causa palestinese.

Lo ha spiegato bene Yaacov Nagel, fino alla primavera scorsa consigliere per la sicurezza nazionale del premier israeliano Netanyahu. Ai sauditi non importa più nulla dei palestinesi. All’erede al trono Mohammed bin Salman basta poter dire “c’è un accordo”, riservandosi magari di farlo trangugiare ad Abu Mazen e alla sua dirigenza senescente e corrotta con qualche robusta iniezione di denaro.

A quel punto, l’asse israelo-saudita potrebbe nascere e contrapporsi alla crescente influenza dell’Iran con maggiore forza ed efficacia, inglobando magari qualche comprimario come il premier libanese (musulmano sunnita) Saad Hariri, non a caso fresco di ritiro delle dimissioni che erano state annunciate un mese fa da quell’Arabia Saudita dove era scappato dicendosi minacciato di morte da Hezbollah.

Su tutto la benedizione degli Usa di Donald Trump che, sempre guarda caso, hanno coperto di armi i sauditi (a farlo con gli israeliani aveva già pensato Obama, con un aumento dei fondi per la difesa dello Stato ebraico pari a 700 milioni annui per dieci anni), aperto un ombrello politico enorme su Israele e sulla politica degli insediamenti e sconfessato l’accordo sul nucleare dell’Iran firmato nel 2015. Inizia così, appunto, il secondo tempo della guerra in Siria.

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