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idiavoli

Vite segrete dell’era digitale

di I Diavoli

"Dal momento che la realtà esterna è pura finzione”, scrisse Ballard, “lo scrittore non ha bisogno di inventare nulla, tutto è già dato". "Ogni giorno in rete si ha la riprova delle sue parole; internet è un mercato dell’identità", dice oggi Andrew O'Hagan che per Adelphi ha raccontato tre storie "scritte nel Far West" del web

Tutti ti valutano per quello che appari. Pochi comprendono quel che tu sei.
Niccolò Machiavelli

«C’è un altro mondo, ma è in questo». L’emblematico esergo, tratto dal poeta francese Paul Éluard, apre il nuovo libro di Andrew O’Hagan, La vita segreta. Tre storie vere dell’era digitale (Adelphi, 2017), pubblicato da poco in Italia.

Il romanziere scozzese, ma sarebbe meglio definirlo ormai un autore di non-fiction novel, principia il volume con una prefazione che è già mise en abyme dell’opera stessa, cioè una dichiarazione poetica, d’intenti, in cui si legge:

«J.G. Ballard aveva previsto che lo scrittore non avrebbe più avuto un ruolo nella società – che sarebbe presto diventato superfluo, come certi personaggi dei romanzi ottocenteschi russi. “Dal momento che la realtà esterna è pura finzione”, scrisse Ballard, “lo scrittore non ha bisogno di inventare nulla, tutto è già dato”. Ogni giorno in rete si ha la riprova delle sue parole; internet è un mercato dell’identità».

È la grande aporia a cui l’uomo si trova a far fronte nell’era del post-internet, cioè in piena epoca digitale, il momento storico durante il quale, per dirla con un altro romanziere, nostrano stavolta, è come se “il futuro fosse franato nel presente” e la fantascienza, quindi, non è più un genere in grado di interpretare la realtà, in quanto gli strumenti della finzione si scontrano con l’evidenza di essere stati oltrepassati e sussunti dalla realtà stessa.

Per questo O’Hagan, per assolvere al compito di scandagliare «quel pozzo senza fondo di alterità che è la rete», deve ricorrere a “storie vere”, cioè raccontare a partire da un esperito tangibilissimo e documentato, come le biografie di tre misteriosi quanto simbolici personaggi, realmente esistiti e con cui ha avuto un contatto in prima persona. Lo scrittore, sembra volerci confessare O’Hagan, per afferrare la realtà al tempo delle identità virtuali imposte dal web, deve sradicare il suo corpo dalla scrivania e gettarlo nella materia viva, che è virtualità, e mettere la sua fantasia al servizio di ciò che esperisce o si illude di esperire.

«Le storie di questo libro», si legge ancora nella prefazione, «sono state scritte nel Far West di internet, prima di ogni regolamentazione o codice di condotta». Perché il rovescio della grande emancipazione collettiva, culturale e sociale, apportata dall’ennesima rivoluzione tecnologica che è stata la rete, è una deontologia – cioè una moralità applicata a tale settore – ancora sfuggente e dai confini impalpabili, sfumati tra i bagliori di un’invenzione liberatoria e le ombre del deep web. Che succede quando la verità – o presunta tale – è svelata da identità nascoste?

E, nello specifico del volume, che O’Hagan dichiara non avere alcuna pretesa di universalità ma soltanto scorci particolari in grado di portare a galla alcune – e solo alcune – contraddizioni utili ad afferrare il momento storico: chi è Satoshi Nakamoto, “l’individuo” – o oscura entità collettiva – che ha inventato i bitcoin (la valuta digitale)? E ancora: che cos’ha davvero fatto, Julian Assange (fondatore di WikiLeaks)?

Il volume, come anticipato, è diviso in tre parti, tre storie diverse che, in maniera progressiva, finiscono per coincidere nel gravoso tema dell’alterità e delle identità fittizie, virtuali.

La prima storia racconta l’esperienza dell’autore alle prese con Julian Assange, quando O’Hagan riceve da un grosso editore la proposta di fare da ghostwriter alla figura, ormai ammantata di clamore, del fondatore di WikiLeaks, perché l’autore scozzese, secondo il suo committente, è «provvisto di un’arma ancora efficace: una qualche confidenza con il romanzesco». Così O’Hagan si addentra nella tenuta di Ellingham Hall, dove Assange e la sua compagna Sarah Harrison, insieme al resto della banda di hacker, muniti dei loro laptop, portano avanti la loro battaglia per la verità: cioè ricavare documenti coperti da segreti di Stato, decriptarli e quindi diffonderli al mondo. Quando O’Hagan conosce Assange, la vicenda legata al suo gruppo e già nota e sotto i riflettori. Intorno a Ellingham Hall si muovono furtivi paparazzi, giornalisti e procacciatori di scoop d’ogni sorta, secondo Julian persino sicari che lo vogliono morto. Pertanto la missione di Andrew, che dovrebbe essere dialogare con il criptico fondatore al fine di ottenerne una definitiva e fragorosa biografia, diviene un’immersione profonda nel suo mondo costituito da paranoie e non-detti, soprattutto rispetto alla miriade di rapporti che Assange intrattiene con i mass-media che vogliono – secondo le sue ossessioni – vampirizzare o distorcere le sue informazioni.

Ecco, dunque, la doppia sfida che O’Hagan ingaggia e che prova a rendicontare con schiettezza nel volume: da una parte descrivere il personaggio e la sua storia, dall’altra provare a districarsi nel grumo di fandonie e manipolazioni che rimbalzano tra lo stesso Assange e le persone, entità e istituzioni con cui interagisce. Nell’orizzonte, continuamente sfumato, di un possibile raggiungimento e definizione di quella deontologia che dovrebbe riguardare il web e le sue artefatte identità e, non ultimo, il ruolo stesso – comprovato sulla sua pelle e sulle sue azioni – dello “scrittore fantasma”.

La seconda riguarda ancora il concetto di identità-alterità ma, stavolta, non è più centrata su una figura clamorosa come poteva essere quella di Assange e WikiLeaks. O’Hagan “resuscita” e quindi cancella sul web la persona di Ronnie Pinn, un ragazzo morto negli anni ’80, ma l’obiettivo è capire cosa accade nel mezzo di queste due azioni. «Cancellare il finto Ronnie non fu facile. Aveva sessantotto follower su Twitter, e credo che pochi di loro notarono la sua scomparsa; alcuni erano finti come lui. Ma chiudere un account lascia un’ombra sul web. Un tempo le persone reali potevano sparire senza che nessuno se ne accorgesse e senza lasciare tracce. La vita era più semplice, da questo punto di vista. Oggi non è facile eliminare un’identità fittizia, e qualcosa del finto Ronnie è indelebile, la sua “leggenda” è parte dell’etere collettivo. Ha dei “metadati”, le informazioni rastrellate dai governi, i rimasugli di un’esistenza. E continuerà a esistere in quell’universo, pur non essendo mai esistito sulla terra». E l’Adriano Meis del Fu Mattia Pascal di Pirandello, forse, avrebbe concordato.

Ad ogni modo l’esperimento, condotto mediante la creazione di un profilo (fake) su Facebook, è volto a intercettare ed esaminare le reazioni e interazioni che si producono all’interno dell’egemonico social, per capire fin dove si può spingere la sintesi comunicativa in atto tra il mondo virtuale e quello reale, con tutte le contraddizioni che vi esplodono dentro.

La terza prova, infine, in qualche modo si riallaccia a una figura clamorosa che, in questo caso, è quella di Satoshi Nakamoto, il creatore della valuta digitale bitcoin. Nessuno conosce la vera identità di Nakamoto che, in tutta probabilità, potrebbe essere un’entità collettiva di hacker operante ai fini di destabilizzare l’ordine finanziario costituito attraverso, appunto, la produzione di una valuta “alternativa”. O’Hagan entra in contatto con la figura di Craig Wright, uno dei tanti sospettati in cui le autorità hanno individuato il famigerato Nakamoto.

Ma il punto, ancora una volta per O’Hagan, non è tanto trovare conferme della vera identità di Nakamoto – dato che non verrà mai alla luce – quanto semmai proseguire la quella sfida iniziata con Assange riguardo la concezione di alterità virtuale e come essa venga recepita e percepita dal mondo e la popolazione circostante.

Nella decisiva e pervasiva parentesi storica odierna in cui, se le sorelle Whachowski dovessero rigirare la celebre pellicola The Matrix, forse, dovrebbero ribaltare la prospettiva della narrazione e – con il tramonto dell’underground il sistemico avvento dell’algoritmo finanziario e biopolitico – considerare la vita vera come “matrix” mentre l’evasione – nelle sue declinazioni di oscuro rifugio e lotta per la verità – un illusorio mondo parallelo in cui si riversano speranze e frustrazioni, il libro di O’Hagan risulta essere un altro tassello di ibridazione narrativa efficace, o quanto meno interessante, per cogliere sfumature e contraddizioni legate all’epoca della rete. In cui le vite segrete, nonostante Lacan ammonisca sull’evidenza che “il linguaggio, prima significare qualcosa, significa per qualcuno”, rischiano di finire per coincidere con la concretezza dell’essere.

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