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ilconformista

Il cortocircuito tra sinistra e popolo sull’immigrazione

di Federico Stoppa

Un dato che emerge con chiarezza dalle elezioni politiche dei principali paesi europei è la spaccatura dell’elettorato tradizionale della sinistra sulla questione immigrazione: tra la base operaia e popolare anti-immigrazione e il ceto medio benestante – dei dipendenti pubblici, specie nel settore dell’educazione, degli studenti internazionali, dei professionisti, degli intellettuali, dei lavoratori ad alte qualifiche – a favore dell’apertura incondizionata delle frontiere. In genere, nei milieu politici e culturali progressisti questa sgradevole evidenza empirica viene rimossa, o liquidata sbrigativamente in termini moralistici: è un dovere etico accogliere i più svantaggiati, mentre chi solleva obiezioni all’imperativo degli open borders è bollato come razzista e xenofobo (anche se i due termini, come ricorda Luca Ricolfi, non sono affatto la stessa cosa). È chiaro che un atteggiamento di questo tipo, rivelatore di superbia intellettuale e disprezzo morale verso chi la pensa diversamente, non fa che acuire il distacco tra il comune sentire delle classi più deboli e le forze politiche che dovrebbero rappresentarle, a tutto vantaggio dei movimenti di estrema destra.

Prima di giudicare, andrebbe fatto lo sforzo di comprendere gli effetti economici e sociali, profondamente asimmetrici, che l’immigrazione provoca sulle popolazioni ospitanti.

È evidente, per esempio, che dietro la narrativa progressista (e sovente cattolica) dello scontro tra sostenitori dei diritti umani e biechi razzisti si nasconde in realtà un molto più prosaico conflitto di interessi: i ceti popolari, la forza lavoro meno qualificata, i disoccupati sono a favore di una regolamentazione dei flussi perché subiscono direttamente gli effetti più sgradevoli dell’immigrazione, come la concorrenza su abitazioni popolari, servizi pubblici e mercato del lavoro, oltre che la maggior insicurezza reale e percepita nelle periferie degradate e deindustrializzate; mentre i ceti urbani acculturati e benestanti (e le imprese) sostengono il liberismo migratorio perché ne ricavano solo benefici, come la possibilità di disporre di manodopera a basso costo specie nei servizi di cura della persona, agricoltura, edilizia e ristorazione.

La mediazione del conflitto d’interessi, in una democrazia, spetta alla politica. E la politica, specie se progressista, non dovrebbe muoversi sulla base di sentimenti di carità, ma su logiche di giustizia sociale (come più volte affermato dai vari Sanders, Corbyn, Lafontaine). Tutto questo cosa significa, in pratica? Si tratterebbe, per esempio, di rivendicare – contro le egualmente pericolose fantasie di chiusura o apertura totale – l’importanza di confini controllati politicamente da Stati-nazione democratici, senza i quali le migrazioni sono destinate ad accelerare e a mettere sotto stress il welfare, ad esacerbare la concorrenza sul mercato del lavoro e la “guerra tra poveri”, a spingere la diversità etnica e culturale fino al punto di rottura dei legami di fiducia e mutua cooperazione tra membri delle comunità (il cosiddetto “capitale sociale”), rendendo politicamente impraticabile la redistribuzione fiscale per tutelare i meno abbienti (cfr Putnam, 2007; Skidelsky, 2017).

Parimenti, andrebbe sottolineato il differente status giuridico dei migranti. Da una parte, i richiedenti asilo – perché in fuga da guerre o da dittature – ai quali va garantita accoglienza e protezione fino al cessato pericolo, evitando però di strumentalizzarli per ragioni di politica interna, come fatto dal governo tedesco nel 2015. Altra questione sono i migranti economici: qui si tratta di stabilire un numero massimo di ingressi – che devono avvenire in condizioni di sicurezza e legalità, spezzando così il business degli scafisti e delle varie mafie – sulla base delle specifiche strutture economiche dei paesi europei e dei loro diversi profili demografici (oltre che dei livelli di disoccupazione), promuovendo politiche di integrazione attiva per chi arriva: sociali, culturali, abitative, scolastiche, di orientamento professionale; politiche che – non nascondiamolo – sono costose e difficilmente attuabili, senza creare tensioni sociali, con gli attuali vincoli di bilancio.

Cruciale è pretendere che chi arriva sottoscriva senza reticenze i valori liberali europei (Stato di diritto, separazione tra sfera religiosa e politica, uguaglianza di genere) evitando che si producano – a causa di un’errata interpretazione del multiculturalismo – ghetti ed enclavi, brodo di coltura del terrorismo (Rampini, 2016). D’altra parte, occorre riconoscere che spesso chi emigra è la parte più giovane, dinamica e culturalmente attrezzata dei paesi poveri, che quindi porta via con sé le sue conoscenze e competenze, impoverendo ulteriormente chi è rimasto nel paese di origine (anche se le rimesse possono, entro certi livelli di emigrazione, attenuare questo effetto); per questo, in un’ottica progressista la libera circolazione della manodopera – uno dei pilastri del neoliberismo assieme alla libera circolazione dei capitali e delle merci non può essere un surrogato delle politiche di sviluppo dei territori periferici.

Bisognerebbe inoltre essere consapevoli che l’accelerazione delle migrazioni – si stima che circa il 40% della popolazione dei paesi poveri, se potesse, lascerebbe la propria terra d’origine – non è una legge di natura, ma l’effetto di scelte geopolitiche scriteriate da parte delle elité politiche occidentali (le guerre “umanitarie” in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) e del crescente divario economico tra Nord e Sud del Mondo, di cui sono corresponsabili i pacchetti di riforme neo-liberiste (Structural adjustment Programs, SAP) che FMI e Banca Mondiale hanno imposto ai paesi africani negli anni ’80-’90 e le istituzioni arretrate e deboli che ad oggi frenano lo sviluppo di quei paesi (Chang,2010).

In ultima analisi, occorre rimediare con urgenza al cortocircuito che si è creato, in Europa, tra sinistra e popolo sul delicato tema dell’immigrazione. Prendere sul serio la richiesta di protezione dei ceti più fragili – proponendo soluzioni non demagogiche – è l’unica via per stroncare sul nascere i rigurgiti neofascisti che stanno riaffiorando ovunque nel Vecchio Continente.

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