Print Friendly, PDF & Email

micromega

La religione come selfie

di Sossio Giametta

Il cristianesimo è l’interiorizzazione dell’uomo. Questa frase rappresenta l’interpretazione più breve e completa del cristianesimo. Ne comprende infatti la definizione, l’esaltazione e la critica. Sant’Agostino, imbevuto di cultura classica, traghetta l’essere di Parmenide nel cristianesimo. Anche se si ispira ai neoplatonici, diventa così il Parmenide del cristianesimo, non il Platone, come si dice. La scoperta dell’Essere uno, continuo, totale e necessario (“non può non essere”), che non è stato e non sarà ma è, è una fede, è la fede e la religione di Parmenide. Il suo Della natura è l’espressione entusiastica di un’anima religiosa che ha trovato l’onto-teologia. Nel suo poema il saggio è “trasportato da cavalle focose, intatto attraverso ogni cosa, sulla via famosa della divinità”. Agostino ha prolungato, completato e personalizzato l’Essere astratto e impersonale di Parmenide in un Dio padre provvidente, amorevole e misericordioso – col diavolo per nemico. Ha così trasformato l’esteriorità pagana irta di difficoltà e problematicità, minacciata di inquietudine, dispersione e consunzione, in una interiorità personalizzata, quella dell’uomo che cerca la verità e Dio in strati sempre più intimi e profondi, giacché, “Per quanto cammini, i confini dell’anima non li troverai mai. Così profondo è il suo fondamento”, come aveva detto Eraclito.

E ha dimidiato l’unico mondo nelle due “città” (civitates), la Città terrena, regno della “carne”, della sete di dominio, della superbia e dell’amore di sé che disprezza l’amore di Dio, e la Città di Dio, regno dello spirito, dell’interiorità, dell’uomo nuovo, dell’umiltà, dell’amore di Dio che disprezza l’amore di sé – e della grazia che ci purifica dal peccato originale e ci salva dalla morte. Stretto dunque fra due infinità, la cattiva, esterna, che lo nega nella sua piccolezza, perifericità e subordinazione, e la buona, interiore, che lo pone al centro, lo afferma e lo conferma, lo dilata e lo approfondisce, l’uomo fa bene a seguire il comando di Agostino: Rede in te ipsum. Perché solo in interiore homine habitat veritas, la verità che è Dio e Dio che è amore. Agostino dice di non aver mai cercato altro. Ora, la verità e Dio sono la forza dell’uomo, in quanto egli risulta allora in asse, beante e beato, con la fonte inestinguibile del tutto. Dall’interiorità scaturiscono razionalità, bellezza, bontà, creatività, saldezza. Eine feste Burg ist unser Gott (Una salda fortezza è il nostro Dio), canta Bach. D’altra parte, però,

Quel Dio che dentro il petto mi dimora
Scuoter mi può nel più profondo interno,
Ei, che di forze mie regge il governo,
Nulla può far agir che ne sia fuora.

Così lamenta Faust.[1] Ed è il contrario del detto “Non muove foglia che Dio non voglia”. L’uomo non può vivere esclusivamente nell’interiorità. Tutti i viventi vivono verso l’esterno e ogni vita sana è una vita verso l’esterno. C’è, fra innumerevoli altre, una significativa testimonianza di Bertrand Russell. Da giovane visse a lungo, dice, sprofondato nell’interiorità, tormentandosi, facendosi scupoli e accusandosi di molte colpe. Come risultato la sua vita era sterile e infelice. Quando invece cominciò a vivere verso l’esterno, pur non essendo immune da dolori, disillusioni e negatività, potette essere utile a sé e agli altri, e vivere felice. Vivere verso l’interno serve in realtà a vivere verso l’esterno, come la trascendenza serve all’immanenza. L’aldilà immaginario è un angolino dell’immenso realissimo aldiqua. Non ci sono due mondi, la Città di Dio e la Città terrena. Ce n’è uno solo, fatto di essenza divina e di condizioni di esistenza (per lo più) diaboliche: due cose eterogenee, di cui l’una non tocca l’altra, ma che sono inscindibilmente intrecciate e inestricabilmente fuse nei viventi. Gli uomini se ne devono fare una ragione, soprattutto una ragione di lotta per affermare, mantenere e potenziare la loro essenza. Pur rimanendo il rifugio contro i mali del mondo, l’interiorizzazione dell’uomo conosce anche un’interpretazione negativa, quella che Nietzsche dà nella Genealogia della morale, II, 16. È “quella metamorfosi che [l’uomo] subì quando si ritrovò definitivamente rinchiuso in balìa della società e della pace”. Gli uomini, da “esseri semibestiali felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, alle scorribande e alle avventure, [...] furono ridotti, questi infelici, a pensare, a ragionare, a calcolare, a combinare cause ed effetti, e furono ridotti alla loro ‘coscienza’, il loro organo più misero e fallibile!”. Gli antichi istinti, che così “cessarono di far sentire le loro esigenze, dovettero cercarsi appagamenti sotterranei”, perché “tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno si rivolgono all’interno – è questo ciò che io chiamo interiorizzazione dell’uomo. Solamente con ciò si sviluppa nell’uomo quella che più tardi si chiamerà la sua ‘anima’. Tutto il mondo interiore [...] si è dilatato, gonfiato, ha acquistato profondità, ampiezza, altezza nella stessa misura in cui è stato impedito lo sfogo dell’uomo verso l’esterno”. Esprimiamo una riserva sulla storicizzazione di questa dicotomia. Ma sta di fatto che, con o senza lo “svuotamento degli istinti” di cui parla Nietzsche, e con o senza l’interiorizzazione e il padre provvidente, amorevole e misericordioso di cui parla Agostino, la vita rimane la stessa: travagliata e drammatica, ingiusta e spietata, tragica e crudele, priva di senso al di là di se stessa. Se si considera poi tutto l’universo, il creato disertato dal creatore che angosciava Pascal al punto da indurlo alla scommessa, al tuffo nella religione, cioè nell’impossibile antropomorfizzazione, si vede che la vita in esso, conosciuta solo nel pianetino Terra ma magari esistente anche in innumerevoli altri, rimane tuttavia poca cosa; e che, nella miriade delle galassie pullulanti di corpi massimi, le stelle, che a noi nel firmamento appaiono assolutamente i più piccoli, gli spazi siderali son quasi vuoti. L’universo è un pentolone con poche lenticchie, come è stato detto. Si potrebbe quindi dire scherzosamente che la religione si riduce a un compiaciuto selfie, che può aiutare a vivere, come tutte le illusioni, se non si trattasse, in realtà, di una temeraria opera di colonizzazione della natura: la trasformazione della natura nell’uomo, di quella colonizzazione che costituisce la testa di ponte nella natura selvaggia, che l’uomo costruisce e accresce sempre più per resistere all’onda caotica distruttiva dell’universo. L’uomo contro la natura allora, contro deus sive natura? Sì, perché l’uomo stesso è natura, e nemo contra deum nisi deus ipse.


Note
[1] Goethe, Il primo Faust, 1566-1569. Trad. Di Liliana Scalero.

Comments

Search Reset
0
massimo terli
Tuesday, 26 December 2017 18:48
ma sta cosa a che serve? e che vuol dire?
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit