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ilponte

Liberi e Uguali, ma per che cosa?

di Marcello Rossi

Liberté, égalité, fraternité, il motto nazionale della Repubblica francese, risalente al 1700 e associato alla rivoluzione dell’Ottantanove, sembra essere stato l’ispiratore del nome del nuovo raggruppamento della sinistra italiana, ma con una variante significativa in quanto nella versione di questa sinistra è caduto l’ultimo elemento del motto, fraternité, che per l’appunto è l’elemento veramente rivoluzionario. Voglio dire che liberté ed égalité rientrano a pieno titolo in una teoria liberale della società, mentre fraternité – concetto che ovviamente non va letto in chiave religiosa – va oltre il liberalismo e apre a una società socialista. Ma questo aspetto sembra essere sfuggito – e pour cause, dico io – ai fondatori del nuovo raggruppamento che, per quanto siano contro il renzismo, non per questo assumono il socialismo a loro punto di riferimento. Se così è, niente di nuovo sotto il cielo della sinistra italiana.

«Nasciamo liberi e uguali per ridare dignità al lavoro», ha detto Fassina il 4 dicembre scorso al telegiornale di Rai 3. Una dichiarazione sibillina perché per la dignità del lavoro la libertà e l’uguaglianza senz’altro servono, ma non sono gli elementi dirimenti: occorrerebbe anche sapere a chi appartengono la materia prima e i mezzi di produzione. In altre parole, quale modo di produzione adottare.

E tuttavia questa dichiarazione nasconde qualcosa: nasconde l’idea di un’economia keynesiana, la filosofia cioè del Partito democratico veltroniano, prodiano e in parte anche bersaniano che, ritenendo, tra le altre cose, le liberalizzazioni “di sinistra”, non va oltre un riformismo vago e inconsistente, proponendoci come soluzione finale non il socialismo ma un ormai desueto “capitalismo dal volto umano”.

Eppure già nel novembre 2005 proprio sul «Ponte» Gaetano Arfè, evidentemente inascoltato, aveva affondato il bisturi dichiarando che «va detto a chiare lettere che bisogna sbarazzare il terreno di quella parola insulsa e vuota che ha nome riformismo. […] e per questo bisogna aggredire i miti omicidi che oggi egemonizzano il mondo e ne indirizzano le politiche: il culto idolatra del mercato che contiene, nella sua dottrina e nella sua pratica, la negazione di ogni diritto, anche quello di vivere, all’essere umano; lo sviluppo che ha cessato di essere, in tutti i campi, “compatibile”, per cui ogni progresso su questa via è un colpo dato alla possibilità di sopravvivenza dei nostri figli e dei nostri nipoti; la competitività intesa e praticata come la legittimazione della bestialità nei rapporti sociali e umani»1. Quando invece «il tratto caratterizzante del riformismo socialista, in sostanza, non fu quello di voler dare un volto umano al capitalismo, ma di trasformare le strutture della società per costruire un ordinamento dove trovassero fondamento stabile i valori della pace, della libertà e della giustizia»2.

Ancora all’insegna di un riformismo senza qualifica i Ds strinsero un patto di ferro con la Margherita per realizzare il Partito democratico e gli attuali «Liberi e Uguali» furono a pieno titolo della partita. Si realizzava finalmente l’antico sogno berlingueriano del compromesso storico? Non direi, sia perché il momento storico non era più quello di Berlinguer, sia perché, nel caso di specie, bisognerebbe parlare di compromesso storico “rovesciato”. La strategia di Berlinguer, infatti, – difficile quanto si voglia, se non impossibile – era quella di raccordare le forze “cattoliche progressiste” con il socialismo, quella dei dirigenti diessini di inserire il partito nella dinamica del capitalismo, anche se di un capitalismo soft. E dopo dieci anni dalla nascita del Partito democratico questa esigenza di un capitalismo soft sembra ancora attuale sia nelle schiere renziane sia nei suoi oppositori.

Noi, forse ingenuamente, ci aspettavamo che, dopo la rottura con Renzi, finalmente questo “nuovo” raggruppamento di sinistra tornasse a parlare di socialismo. E gli input non mancavano, primo fra tutti il risultato del referendum del 4 dicembre 2016. E questo perché questa nostra Costituzione, che il popolo ha voluto riconfermare, male si adatta all’individualismo liberista oggi imperante ed è un corpo estraneo, anche se nobile, all’odierna prassi politica. Che il presidente Mattarella l’abbia definita «la cassetta degli attrezzi» è un puro artificio retorico. Quando la Carta statuisce che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» (art. 1); che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» (art. 3); che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4); che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36); che l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41), di fatto già propone una politica che ha nella solidarietà sociale i suoi assi portanti. In essa il libero mercato, la concorrenza, la mobilità del lavoro che poi diviene precarietà, le liberalizzazioni e le privatizzazioni non sono contemplati. Sono infatti frutti di una stagione che ha preteso di revisionare la storia della nostra liberazione dalla dittatura fascista e di buttare alle ortiche quel grande movimento di emancipazione delle masse che fu il socialismo. Il che comporta che anche la Costituzione, che è la figlia più illustre della Resistenza, se pur riaffermata, rischi di essere svuotata del suo significato e resti un cimelio di un tempo che fu. Altro che la cassetta degli attrezzi!

Io credo che il popolo italiano con il referendum abbia voluto mandare un messaggio preciso: la Costituzione va attuata e la sua attuazione non è un problema istituzionale ma politico. Non occorre, cioè, una nuova Carta, ma una nuova politica. Una politica che assuma la solidarietà sociale come condizione necessaria del vivere civile e che confini il mercato nella dimensione di scambio di merci, che è l’unica che gli compete. Una politica in definitiva socialista.

La sinistra non può esimersi dall’affrontare questi problemi con un’ottica di sinistra, e quando il governo prende altre vie deve essere in grado di affermare la propria specificità, e non solo a parole. Giocare sempre di rimessa per difendere l’esistente non è il suo compito.

Dopo l’inconcludente esperienza del Partito democratico veltroniano e prodiano, dopo la tragicommedia del renzismo, è sempre più evidente che il socialismo è l’unica via per una sinistra credibile, ma i “sinistri” sembra che ancora non se ne siano accorti.


Note
1 G. Arfè, Cinquantadue anni dopo, «Il Ponte», n. 11, novembre 2005.
2 G. Arfè, Perché non possiamo dirci riformisti, «Il Ponte», n. 10, ottobre 2005.

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