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Processo all’economia. L’uomo economico? Un malato di mente

di Andrea Ventura

Vacilla sempre di più l’assioma della teoria economica basato sulla razionalità strumentale. Studi e ricerche di mostrano che non può esserci progresso sociale e civile se si osserva la realtà guardando solo all’utile

È significativo dell’insoddisfazione per lo stato della disciplina che, da settimane, sulle colonne del Sole 24 Ore si stia svolgendo un “processo all’economia”. Difensori e critici della teoria dominante affrontano questioni quali i modelli previsionali, la finanza, il realismo della teoria ecc. Numerosi articoli discutono l’ipotesi della razionalità del comportamento. Come è noto, infatti, la teoria economica dominante muove dal presupposto per il quale gli esseri umani seguono un comportamento razionale finalizzato alla massimizzazione dell’utilità. Questo presupposto è irrinunciabile: l’ipotesi della razionalità rende i comportamenti umani ripetitivi, prevedibili e rappresentabili matematicamente, dunque consente alla disciplina di presentarsi come “scienza” imitando le scienze della natura non umana. Eppure molto spesso gli esseri umani sono irrazionali e creativi, i bisogni cambiano, mentre la società esprime valori e rivendica diritti, elementi questi che in quel modello di scienza non hanno spazio alcuno.

Anche solo scorrendo rapidamente i contributi sul tema, la difficoltà è lampante: da un lato, senza il riferimento al comportamento razionale, l’apparato matematico della teoria si troverebbe privo di fondamento; dall’altro ricerche empiriche sempre più numerose – ricordiamo la recente assegnazione del cosiddetto “premio Nobel” a Richard Thaler – portano gli economisti verso quello che le altre discipline sociali considerano del tutto ovvio: gli esseri umani sono condizionati dai valori e dalle preferenze sociali del gruppo a cui appartengono, oppure hanno esigenze, affetti e emozioni che “distorcono” la logica razionale. Insomma non vogliono, non sono capaci o non sono molto interessati ad essere “uomini economici”.

Va ricordato che la teoria mainstream non si limita a studiare le scelte economiche, ma pretende di analizzare il comportamento umano in ogni ambito della società, dalle scommesse di gioco, alle scelte finanziarie, a quella di rispettare o meno la legge, fino ai rapporti familiari. Essa cioè non traccia distinzione alcuna tra i criteri di comportamenti nell’uso ottimale di un mezzo materiale e il comportamento dell’individuo in società. La teoria economica si propone dunque come antropologia, non come strumento per discutere di un aspetto dell’organizzazione sociale.

Sebbene nella letteratura specialistica, come anche negli articoli pubblicati nel “processo” da cui abbiamo preso le mosse, siano più numerosi quelli che criticano l’ipotesi della razionalità di quelli che la difendono, non si va al cuore del problema: è realmente la caratteristica specifica degli esseri umani quella di seguire un comportamento razionale, oppure la nostra specie si distingue dalle altre specie viventi proprio per la presenza di comportamenti che razionali non sono affatto? In altri termini, questa carenza (o fallimento) della razionalità è un limite, una distorsione dal comportamento ottimale, oppure è la caratteristica che distingue gli uomini dagli animali, questi sì con comportamenti razionali, ripetitivi e dunque largamente prevedibili? Infine, le forme più alte di espressione umana – dall’arte, alla ricerca scientifica, all’interesse per gli altri –, sono veramente espressione della razionalità, oppure fanno capo a qualcosa di profondamente diverso da essa?

È senso comune disprezzare un individuo che assume un comportamento freddo, calcolatore e perfettamente razionale. Studi psichiatrici e psicologici indicano inoltre, con sempre maggiore precisione, che la mancanza di empatia e di interesse per il prossimo sono indici di patologie mentali, anche gravi, mentre gli stessi studi di economia suggeriscono da tempo l’esistenza di un “paradosso della felicità” per il quale, in estrema sintesi, in Occidente il benessere materiale (per il quale indubbiamente la razionalità è indispensabile) si associa sempre più al vuoto interiore e all’insoddisfazione sul piano dei rapporti affettivi. Il passo è breve per riconoscere che, per un essere umano sano, la razionalità è adatta all’uso dei mezzi materiali, mentre non lo è affatto nel rapporto interumano. In altri termini, se è normale calcolare razionalmente i pro e i contro nella scelta di un’automobile o aumentare il consumo di zucchine se cala il prezzo delle zucchine stesse, non lo è sostituire un partner con un altro perché ha un reddito più elevato; non lo è neanche scegliere di dedicarsi ad attività criminali perché, come afferma uno dei capostipiti di questo filone di pensiero, Gary Becker, il soggetto prevede di ottenere grazie ad esse un guadagno maggiore rispetto alle attività legali, anche tenendo conto della probabilità di finire in galera.

Se non vogliamo identificare il progresso civile con la riduzione a mercimonio dell’intera società, va dunque tracciata una distinzione: sono le cose inanimate (e talvolta anche gli animali) che si usano e si consumano ai fini dell’utilità pratica, non le persone. I primi servono a soddisfare il benessere del corpo, mentre i rapporti tra le persone consentono, a certe condizioni, di realizzare l’identità di ciascuno nella socialità. E anche quando un essere umano è “utile” per il benessere fisico di un altro, sempre di essere umano si tratta, non di un oggetto materiale. Eppure questa distinzione tra cose e esseri umani – e dunque la distinzione tra ambiti dove il comportamento razionale è effettivamente adatto ad assicurare il benessere del soggetto, e ambiti dove prevalgono dimensioni e motivazioni non riconducibili alla razionalità –, nella teoria dominante è del tutto assente. Quest’ultima si trova così in una contraddizione irrisolvibile: o muove da una concezione “ideale” dell’individuo che psichiatria, psicologia e senso comune considerano come un malato di mente (o un criminale potenziale); oppure, abbandonandola, rimane priva del suo apparato analitico. La terza possibilità sarebbe quella di distinguere appunto tra il comportamento razionale, adatto all’uso dei mezzi materiali, e quello non razionale nella socialità: ma questa via è preclusa perché la teoria economica dominante pretende di occuparsi con lo stesso metodo di tutte le scelte, non dell’uso dei mezzi per il benessere materiale.

È molto razionale lasciar morire i migranti nei campi della Libia, lontano dal nostro sguardo, come lo è speculare sulle sorti di intere economie, sui titoli finanziari, sfruttare il lavoro e la creatività altrui, rovesciare e umiliare governi (dal Cile degli anni settanta alla Grecia odierna) perché non rispettano la logica del libero mercato o perché non sono sufficientemente competitivi nella globalizzazione. Anche la guerra può essere molto razionale: consente di risolvere rapidamente dispute complesse e offre lucrosi profitti ai mercanti di morte. Il dominio della razionalità troppo spesso si accompagna alla legge del più forte, dunque è molto distruttivo. Non può esserci progresso sociale e civile, e neanche un’economia al servizio dei bisogni umani, se non si demolisce l’idea fondante della teoria economica che assume come comportamento “ottimale” quello orientato alla massimizzazione dell’utilità pratica, cioè quello dell’uomo economico.

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