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Trump e l’universalismo di facciata

di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli 

A quasi un anno dal suo insediamento possiamo dire che, nel bene e nel male, la caratteristica più interessante della presidenza di Donald Trump è stata la sua rinuncia all’universalismo di facciata.

L’universalismo è quell’idea secondo cui è moralmente necessario difendere in maniera imparziale gli interessi fondamentali di tutte le persone: uomini e donne, compatrioti e stranieri, abili e disabili, bianchi e neri, abbienti e nullatenenti. È un’idea che ha origini antichissime e che, per esempio, in epoca moderna trova uno sviluppo importante nella Rivoluzione Francese (con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino) e nella Rivoluzione Haitiana (1791-1804) dei giacobini neri, abolizionisti e anticolonialisti.

L’universalismo è di facciata quando è una strategia retorica usata per legittimare moralmente un dato potere o una data istituzione. Chi governa si richiama ad istanze universaliste per far credere che il suo potere venga esercitato in maniera equa. Ma difendere gli interessi fondamentali di tutti è politicamente complicato e spesso incompatibile coi desideri dei gruppi sociali più forti. È dunque raro che, senza una forte spinta dal basso, all’universalismo di facciata corrispondano politiche effettivamente universaliste. L’universalismo di facciata è una delle forme di autocelebrazione del potere.

In passato, i presidenti statunitensi hanno spesso fatto uso dell’universalismo di facciata in modo da rendere più accettabile l’esercizio del loro potere. I leader della nazione più potente al mondo si sono spesso presentati come difensori dei diritti umani universali. Lo hanno fatto per addolcire la percezione della forza militare e culturale americana e per promuovere interessi parziali. Si pensi per esempio alle varie giustificazioni che sono state date negli anni per gli interventi fatti dai governi statunitensi nel mondo, interventi militari ed economici da cui le élite di quel paese hanno tratto ampi benefici.

Trump ha rinunciato all’universalismo di facciata. Ne sono prova gli insulti rivolti a messicani e islamici, l’aperta simpatia per gli attivisti del suprematismo bianco, le uscite sessiste, la presa in giro dei disabili, fino ad arrivare alla recente decisione di trasferire l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme, a discapito dei palestinesi. Anche il negazionismo a proposito del riscaldamento globale e l’uscita dagli accordi di Parigi sul clima seguono questa logica. L’universalismo richiederebbe infatti di limitare l’impatto sull’ambiente dell’America, a favore di chi vive nei paesi emergenti. Ma di sacrifici per le imprese e per i consumatori americani Trump non vuole neanche sentir parlare.

A Trump non importa di legittimarsi moralmente con la pretesa di esercitare il potere in maniera equa. Sia a livello domestico che a livello globale ci tiene invece a presentarsi come l’agguerrito difensore di una parte, la sua parte. Trump esalta la parzialità e se ne infischia dell’universalità. Non cerca di addolcire ma anzi accentua le asprezze. Così facendo, mette a nudo i conflitti e le asimmetrie dei rapporti di forza. La narrazione salvifico-ecumenica sul ruolo degli Stati Uniti d’America nella storia dell’umanità è stata cestinata.

L’America ha perso il suo manto di universalità. Come è potuto avvenire questo? Si tratta di un effetto della miracolosa ascesa economica della Cina, e del conseguente cambiamento nei rapporti di forza a livello internazionale? O è invece il risultato del fatto che grazie ai social media il dibattito pubblico non è più esclusivamente in mano a pochi riveriti guardiani dell’informazione, spesso chiamati a giustificare e celebrare trionfalmente il potere costituito? Sono temi di cui gli storici, i sociologi, e i politologi si occuperanno a lungo.

Ciò che conta però adesso è che il manto universalista della potenza americana sia finito nel falò delle ipocrisie. Questo può essere per certi versi un bene, ma può anche costituire un grave problema. Come avviene per le ipocrisie in generale, non sempre l’universalismo di facciata è un male. Col parzialismo di Trump e seguaci, c’è il rischio concreto che la violenza che scaturisce dai conflitti sociali globali diventi più cruenta. E c’è il rischio che nel discorso pubblico si perda traccia delle istanze universaliste. Rigurgiti di razzismo, sessismo, e vari impulsi neocoloniali possono generare enormi danni e sofferenze. Ma, nonostante il clima politico che favorisce il parzialismo, chi ha a cuore l’universalismo può cercare di approfittare del falò trumpiano delle ipocrisie per sviluppare e portare avanti un universalismo meno ipocrita. Non è facile, ma bisogna provarci.

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