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L’ideologia del decoro contro la città pubblica

di Militant

Negli ultimi anni il binomio degrado/decoro è entrato prepotentemente nel lessico pubblico conquistando una centralità nel dibattito politico e nelle agende di governo delle città e del Paese. Si tratta di concetti labili e apparentemente “neutri”, che possono cioè essere stiracchiati in ogni direzione, ma che sempre più spesso, però, finiscono col sovrapporsi e il coniugarsi con il tema della sicurezza. Il lavoro di Carmen Pisanello, che giovedì presenteremo come Carovana delle Periferie al Sally Brown, ha, da questo punto di vista, il grande merito di spiegare le ragioni profonde del successo di quella che si va configurando come una vera e propria ideologia, una falsa coscienza che si sta sempre più dimostrando capace di indirizzare e influenzare le politiche urbane ridisegnando le città in funzione della rendita e della valorizzazione del territorio. La Pisanello, però, non si limita a smascherarne gli aspetti fenomenici o a denunciarne la finta neutralità, ma coglie il nesso profondo tra questa ideologia e la crisi, e più in generale il neoliberismo, cosa che rende il libro politicamente utile per chi, come noi, prova a tradurre in conflitto l’idea di una città pubblica e solidale.

Per un periodo storico relativamente breve, corrispondente ai cosiddetti “gloriosi trenta”, nei paesi imperialisti la cattura e l’orientamento del consenso delle classi subalterne da parte delle classi dominanti si è prodotto principalmente “in positivo”.

Contingenze economiche (il ciclo fordista-keynesiano), storiche (la competizione col campo sovietico) e soggettive (le forza del lavoro, per dirla con la Silver) hanno fatto si che per alcune generazioni il futuro si prospettasse migliore del passato. Molto schematicamente: lo Stato garantiva un lavoro, salari crescenti, il welfare, l’accesso ai consumi e in cambio si garantiva un consenso di massima. L’esaurimento di questo modello di accumulazione, per ragioni che sarebbe qui lunghissimo affrontare, ha rotto definitivamente questo paradigma. Le delocalizzazioni produttive, la terziarizzazione delle economie, la frammentazione e la precarizzazione del lavoro e infine la crisi, hanno prodotto non solo l’avvento di una vera e propria “working poor generation” ma anche l’impoverimento e la crisi di quel ceto medio che era stato al centro del dibattito politico a cavallo tra gli anni 80 e 90.

E’ dunque in questo contesto di crescente insicurezza economica che nasce l’esigenza di costruire il consenso “trough crime”, ovvero attraverso la paura dell’altro, del diverso, del migrante. Una paura instillata ed indotta ad arte così da riuscire a trasmutare un‘insicurezza esistenziale in un’insicurezza che diventa sempre più “fisica”. Quanto sia stata efficace questa strategia di comando possiamo misurarlo intorno a noi quotidianamente, basterebbe guardare al dibattito surreale che si è generato dopo la tentata strage fascista di Macerata. Come ci ricorda l’autrice, nonostante il numero di reati sia costantemente in calo ormai da decenni, le città si sono trasformate in vere e proprie “comunità d’ansia” mentre il conflitto da verticale (tra classi) si è fatto sempre più orizzontale (nella classe).

Da questo punto di vista l’ideologia del decoro ha permesso di trasformare la percezione del disordine e del degrado, il più delle volte frutto delle politiche di disinvestimento e di austerità, in una percezione di vera e propria esposizione al rischio, colpevolizzando e stigmatizzando comportamenti che avrebbero alcuna rilevanza penale e provando, al contempo, ad imporre una “normazione” della devianza spesso integrata in processi di trasformazione più larghi. Si pensi ad esempio ai fenomeni di gentrificazione di alcuni quartieri e alla funzione svolta in tal senso da alcune associazioni “pro decoro”, non ultima la “pulizia” del Pigneto fatta congiuntamente da Retake e da AirBnB (leggi). Oppure al convegno sulla trasformazione costituzionale di Roma in “città regione” che ha visto la partecipazione dell’intero arco politico cittadino (leggi).

Per il civismo proprietario incarnato da queste associazioni il degrado diventa dunque esclusivamente un fatto estetico che mina il valore dei propri investimenti immobiliari, e la lotta al degrado diventa la lotta alle conseguenze e non alle cause di questo abbandono. Una vera e propria politica urbana che mira ad interdire ai “rifiuti della società” le porzioni di città che debbono essere valorizzate , magari perché interessate dai flussi turistici o perché inserite dentro dei progetti di “rigenerazione” in cui anche gli spazi pubblici devono essere funzionali al privato.

Contraddizioni che poi vengono scaricate nelle periferie e nelle aree che non rivestono alcun interesse per la rendita o il profitto, alimentando ulteriormente la guerra tra poveri.

locandina in nome del decoro webrid

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