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gliocchidellaguerra

Le bombe degli Usa contro Assad spiegano le intenzioni di Washington

di Fulvio Scaglione

Per la prima volta da quando, ormai sei anni fa, si è accesa la crudele guerra di Siria, le forze armate americane hanno attaccato direttamente l’esercito regolare di Bashar al-Assad. Due incursioni aeree pesanti (a nome della coalizione internazionale) contro le colonne siriane che muovevano verso Est e verso l’Eufrate per attaccare le milizie curde e delle Forze siriane democratiche attestate appena al di là del fiume.

L’episodio ha scatenato molti allarmi. Si è parlato di possibile escalation militare, ventilando la solita ipotesi di uno scontro Usa-Russia. E si è detto che la strage di soldati siriani ingarbuglia ancor più la già intricata e sanguinosa situazione siriana.

In realtà è vero il contrario. I portavoce del Pentagono hanno detto che l’operazione, preparata per una settimana, è stata condotta informando i comandi russi, i quali peraltro non hanno smentito. Cosa che peraltro corrisponde all’atteggiamento che il Cremlino ha tenuto senza mai deflettere in questi anni di impegno militare in Siria, ovvero: sostegno pieno ad Assad e al suo governo senza però farsi coinvolgere da altre questioni. I russi non si frappongono alle incursioni israeliane nello spazio aereo siriano del Sud e non si sono fatti coinvolgere nello scontro tra esercito regolare siriano e americani nei deserti dell’Est.

È la strategia che Vladimir Putin ha scelto per continuare a essere un attore politico, oltre che militare, credibile in Medio Oriente. Strategia che paga, come i recenti incontri con re Salman dell’Arabia Saudita e il premier Netanyahu di Israele, oltre che le triangolazioni con la Turchia di Erdogan e l’Iran di Alì Khamenei, dimostrano.

Non vi sarà escalation militare, quindi, né la tanto paventata guerra tra Usa e Russia. E non è nemmeno vero che la situazione in Siria si è ulteriormente ingarbugliata. Anche qui, è vero il contrario. Attaccando l’esercito di Assad, gli Usa hanno chiarito una volta per sempre la dinamica politica di questi sei anni di guerra. L’intervento nella Primavera e nella guerra civile siriana da parte delle formazioni terroristiche finanziate dall’Arabia Saudita e dagli altri Paesi sunniti del Golfo Persico, con il più o meno esplicito sostegno politico degli Usa e di altri Paesi occidentali, mirava a mettere una zeppa sunnita nello “spazio sciita” (la Siria degli alawiti e l’Iraq dei governi sciiti di stretta osservanza filo iraniana), disgregando dal punto di vista territoriale la Siria e l’Iraq, l’una mai stata sotto il controllo americo-saudita e l’altro ormai uscito dall’orbita.

Il progetto è arrivato vicino alla riuscita, per almeno due anni il Califfato è riuscito a ritagliarsi uno spazio importante nel cosiddetto Siraq. Poi l’intervento militare russo ha cambiato le carte in tavola e mandato tutto, o quasi, a monte.

Quello che è successo nei giorni scorsi, in parole povere, è solo questo: finito l’Isis, gli Usa hanno deciso di rilevarne il progetto e di ritagliare per i propri amici uno spazio (minore per estensione territoriale ma di uguale importanza strategica) in quello stesso Siraq a lungo occupato dall’Isis. Posizione, quella difesa attaccando l’esercito siriano, di fondamentale importanza strategica, perché insiste sui maggiori giacimenti petroliferi della Siria (quelli che erano a suo tempo sfruttati dall’Isis, che poi vendeva il greggio in Turchia) e perché permette di esercitare un controllo sia sulla Siria sia sull’Iraq.

Ovviamente gli americani non dicono questo. Dicono che volevano difendere gli alleati curdi e le Forze siriane democratiche, che tanto bene si erano battuti contro l’Isis riconquistando anche Raqqa. Tutto vero, per carità. Purtroppo, però, sul terreno si vede qualcosa di un po’ più complesso e meno idilliaco. Se nella zona dei campi petroliferi e dell’Eufrate gli americani difendono gli alleati, nel Nord della Siria, montagnoso e privo di risorse, gli americani abbandonano senza troppi patemi gli stessi alleati (curdi ed Esercito libero siriano) alle cannonate dell’esercito turco, mandato da Recep Erdogan a bombardare il cantone di Afrin e l’esperimento di autogoverno curdo noto con il nome di Rojava. Nel Nord della Siria gli americani non hanno bisogno di costruire un’entità da sottrarre al controllo del Governo di Damasco, perché appena oltre confine, in Turchia, sono già insediati nella base Nato di Incirlik, da dove possono tenere d’occhio la situazione. Lì, quindi, i curdi possono essere abbandonati al loro destino.

Stessi alleati ma trattamento diverso, in base alle esigenze politiche. In ogni caso, la morale di questi ultimi eventi è che siamo tornati alla casella del via. L’obiettivo è tuttora la disgregazione territoriale ed economica della Siria. Da Al Baghdadi a Trump, si cambia tutto perché non cambi nulla.

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