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Abbastanza non è più abbastanza

di Salvatore Cavaleri

“Abbastanza non è più abbastanza”, in questa frase è racchiuso tutto Realismo capitalista, il seminale libro di Mark Fisher, appena tradotto in Italia nella neonata collana Not di Nero editions (https://not.neroeditions.com/mark-fisher-realismo-capitalista/) a dieci anni dalla sua pubblicazione in Inghilterra e ad un anno dalla morte dell’autore.

La citazione per l’esattezza continua così: “Abbastanza non è più abbastanza. È una sindrome che suonerà familiare a quei tanti lavoratori per i quali una valutazione «sufficiente» delle proprie prestazioni non è più… sufficiente”.

Questa frase ha continuato a risuonarmi in testa. È diventata un tormentone. Mi sono trovato a ripeterla o a leggerla a tutti quelli che incontravo. Così sono iniziati gli aneddoti: come quello di una mia amica che mi racconta che, al momento di acquistare una macchina, l’impiegata della concessionaria che ha curato la vendita, una volta finita la transazione, le ha sottoposto un questionario di soddisfazione, spiegando che sì, comunemente in una scala da uno a dieci otto sarebbe una buona valutazione, ma non per il suo capo, che si chiederebbe perché non dieci, cosa cioè è andato storto a tal punto da far scendere di due punti il gradimento rispetto alla piena soddisfazione.

Oppure, penso al questionario di valutazione che ogni tanto ci viene sottoposto al lavoro, con il quale bisogna capire se siamo abbastanza flessibili, ambiziosi e disposti a venire incontro alle esigenze dell’associazione, ma al tempo stesso se siamo rispettosi delle gerarchie interne.

Mark Fisher stesso racconta che “in molte strutture educative, se ad esempio la classe valuta come sufficiente il lavoro del proprio insegnante, quest’ultimo verrà obbligato ad intraprendere un corso di formazione prima che gli venga riassegnato un posto”.

Siamo talmente assuefatti a questi meccanismi da prenderli come qualcosa di naturale, qualcosa che fa parte della realtà, dimenticandoci, però, che si tratta della realtà del capitalismo.

Il realismo capitalista, che dà il titolo al libro è esattamente questo, il processo attraverso il quale il capitalismo si presenta non come il migliore dei mondi, ma come l’unico possibile.

Mi è venuta in mente l’autobiografia della Rossanda quando, raccontando la sua adolescenza, parla del fascismo come di “un panorama trovato, non scelto”. O altri libri ambientati nell’Italia del ventennio, nei quali il fascismo viene descritto come la realtà. Il sabato fascista, per i bambini dell’epoca, era semplicemente il sabato, la scuola fascista era la scuola e così via. Tutta la coreografia sociale e l’amministrazione della vita quotidiana assumevano qualcosa di naturale. Il fascismo era una realtà talmente totalizzante da presentarsi come l’unica realtà.

Ma il realismo capitalista va ben oltre, perché il capitalismo non ammette un fuori, è l’ideologia che si afferma dopo la fine delle ideologie, la meta-narrazione che arriva dopo la fine delle meta-narrazioni. Tanto da rendere “più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.

Fisher descrive il realismo capitalista come una sorta di evoluzione del postmoderno, inteso nella accezione che ne diede Fredric Jameson, cioè, quella di logica culturale egemone del tardo capitalismo.

Parlare di logica culturale consente di osservare la narrazione che un assetto sociale fa di sé stesso. Il realismo capitalista è allora una sorta di mitologia antimitica che da un lato descrive la realtà e dall’altra la performa, proprio perché dichiara di descrivere il mondo per quello che è.

Pensiamo al perenne dibattito sul ruolo della violenza nei film, antico quanto Scorsese e attuale quanto Gomorra, se certi prodotti culturali si limitino a descrivere la realtà o siano essi stessi a produrre emulazione. Si tratta di un circolo vizioso in cui una serie tv descrive la realtà che essa stessa alimenta, operando un raddoppiamento estetico nel quale la rappresentazione esaspera i tratti realistici a tal punto che l’epica cancella l’etica e ci consegna una realtà iperreale.

Il discorso di Fisher non si limita all’analisi dei prodotti culturali e si dirama su due tematiche strettamente intrecciate tra loro: il moltiplicarsi di dispositivi burocratici di controllo e il diffondersi di nuove forme di sofferenza mentale.

Secondo Fisher la vittoria dell’ideologia neoliberista non ha prodotto, come vorrebbe la retorica del “meno stato più mercato”, uno snellimento burocratico, un dissolversi del ruolo dei governi centrali in favore delle magiche virtù auto-regolative di mani invisibili. Al contrario, oggi assistiamo al proliferare di strutture di potere al tempo stesso hard e soft, verticistiche e molecolari, impersonali e interiorizzate dai soggetti. È come se lo stalinismo avesse trovato la sua massima realizzazione non nell’esperienza socialista ma nel tardo capitalismo.

Il diffondersi propagandistico dei miti dell’efficienza e della competizione è avvenuto anche con il diffondersi di strumenti di valutazione costante e meccanismi nati per quantificare ogni prestazione, anche quelle attività che per loro natura non sarebbero quantificabili, come quelle che riguardano le relazioni di cura o l’elaborazione di concetti.

Ognuno di noi è chiamato a farsi carico di questa inutile fatica (http://www.palermo-grad.com/una-fatica-sempre-piu-inutile.html), del tentativo di stare al passo di imperativi all’efficienza, impossibili da reggere.

La nostra epoca vede, cioè, il diffondersi, in dimensioni che hanno i tratti dell’epidemia, di una nuova forma depressiva, non riconducibile semplicemente ai difetti di funzionamento delle meccaniche mentali come vorrebbe la psichiatria, e neanche riducibile alle dinamiche familiari dell’infanzia come vorrebbe la psicologia. Questa depressione di tipo nuovo, secondo Fisher, è una malattia sociale propria del tardo capitalismo. Non siamo di fronte ad una forma di anedonia, all’impossibilità cioè di provare piacere. Al contrario si tratta di una paradossale forma di depressione edonistica, nella quale non possiamo fare altro che cercare soddisfazione immediata al nostro impulso al godimento, in cui il principio di piacere non è rinviabile. È la condizione che Calogero Lo Piccolo descrive come il passaggio dalla “tirannia dell’io devo a quella dell’io posso”.

Siamo chiamati cioè ad adeguarci a modelli di efficienza e a ideali di velocità. Siamo costretti ad essere sempre originali, a volte bizzarri e magari anche trasgressivi. Foolish and hungry e possibilmente cool.

Non possiamo essere altro che belli, magri, connessi, attivi, giovani: né vecchi né bambini, con figli che parlano come i propri genitori e genitori che si vestono come i propri figli.

Qualsiasi cosa diciamo è destinata a ricevere immediatamente una valutazione quantitativa e qualitativa, misurabile dal numero di like e giudicabile attraverso i commenti.

È interessante il modo in cui in un contesto del genere Jameson, insieme a Žižek e Harvey, diventano dei punti di riferimento fondamentali. Fisher, che come racconta Valerio Mattioli nella bellissima prefazione all’edizione italiana ( https://not.neroeditions.com/la-funzione-mark-fisher/ ), nella sua vita ha navigato le acque agitate delle controculture, sceglie per il suo saggio più importante degli appigli teorici a loro modo forti. Fisher cita film, discute di musica, smonta prodotti culturali di ogni sorta, ma senza mai scadere in ammiccamenti pop o in narrazioni giovanilistiche. Siamo distanti anni luce da certe teorie della classe disagiata ( https://www.che-fare.com/valerio-mattioli-33780-battute-contro-la-teoria-della-classe-disagiata/ ). Qui si parla di come funziona il capitalismo sui nostri corpi e sulle nostre vite, anche e soprattutto nei suoi aspetti più crudi e dolorosi.

Ho provato a scrivere questa recensione senza far riferimento al suicidio di Mark Fisher avvenuto un anno fa. Discutere del libro a prescindere. Ma non ci troviamo davanti a parole buttate giù con distacco e disincanto. Raramente vita personale e opere di un autore di saggi politici risultano essere così intrecciate. Ogni singola parola scritta da Fisher ha il peso enorme di ciò che si è vissuto sulla pelle.

Fisher ha fatto della depressione, anche della propria depressione, un tema politico. Per dirla con Francesca Coin ( http://effimera.org/usciamo-mano-dal-castello-dei-vampiri-francesca-coin/ ) “il lavoro di Mark Fisher è come una sorta di diario intimo abitato da fantasmi in cui i racconti in prima persona riescono a mostrare con straordinaria precisione le crepe del mondo neo-liberale”.

Il suo sentirsi “buono a nulla” ( http://effimera.org/buono-nulla-good-for-nothing-mark-fisher/ ), parente stretto di quel “c’è qualcosa che non va in noi?” pronunciato da David Foster Wallace, suona come la descrizione più cruda della condizione in cui ci troviamo alla fine della postmodernità. Il conto che viene presentato alla fine della festa. L’analisi tossicologica che rivela quanto veleno ci fosse in quel liquido in cui si è trasformata la società.

Chi legge i suoi scritti si trova a farsi carico del peso delle parole e ad averne cura, in una dimensione in cui la cura reciproca è diventata terreno di lotta politica.

Nelle ultime pagine del libro scrive: “dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale”.

È questa la grande lezione di Mark Fisher che non ripeteremo mai abbastanza.

Anche perché abbastanza non è più abbastanza.

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