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Il liberismo non è un dato di natura

di Ernesto Longobardi

Dietro i meccanismi dei rapporti di produzione c’è un preciso modello culturale. L’economista Andrea Ventura nel Flagello del neoliberismo fornisce una chiave di lettura che permette di superare l’interpretazione marxiana con una nuova visione antropologica

Dopo La trappola, il bel volume del 2012, pubblicato dall’Asino d’oro, Andrea Ventura ci propone, con Il flagello del neoliberismo, per la stessa casa editrice, gli sviluppi della propria ricerca sulle origini e la natura del capitalismo, le sue radici storiche e culturali nel profondo della cultura occidentale, le grandi mutazioni che lo attraversano e, infine, sul senso di un’opposizione e di una battaglia per il superamento dell’antropologia che del capitalismo è a fondamento. Un’opposizione questa, che vuole segnare un radicale cambiamento di prospettiva rispetto al marxismo, nello spostare il punto di partenza della lotta per l’emancipazione e la realizzazione di una piena identità umana dal terreno dei rapporti materiali di produzione a quello della visione antropologica, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo al pensiero degli esseri umani sugli esseri umani. Potrà risultare a tutt’oggi, un po’ traumatico per chi fosse ancora, anche solo sentimentalmente, legato alle migliori idee del comunismo: ma ha il sapore di una liberazione.

Il libro muove dalla critica alle basi fondative della “scienza” economica, la costruzione ideologico-culturale che meglio esprime lo spirito del capitalismo. L’ipotesi di razionalità posta alla base del comportamento umano sin dalla “rivoluzione” marginalista degli anni ’70 del diciannovesimo secolo – che era poi una contro-rivoluzione rispetto al pensiero di Marx e alle prime forme organizzate della lotta di classe – è in totale assonanza con tutto il percorso lungo del pensiero occidentale, dalla filosofia greca all’illuminismo. Ma ne rappresenta al contempo “l’eclissi”, perché la razionalità intesa in senso strettamente strumentale, come esclusivamente orientata al conseguimento del guadagno e dell’utile, finisce per inaridirsi, svuotarsi di ogni contenuto di pensiero: la scienza economica – lo si legge già nel risvolto di copertina – è del tutto “priva di pensiero sulla società e sulla natura umana”. Ma – nel vuoto di pensiero - diventa, al contempo, totalizzante.

Il modello dell’homo oeconomicus travalica progressivamente le sfere dei bisogni materiali, della produzione e della distribuzione, del commercio e dell’industria, per invadere ogni ambito dell’esistenza: saremmo esseri (umani?) economici non solo nel procacciarci i mezzi di sussistenza, ma in ogni scelta di vita, fin nelle sfere più intime di ordine etico e affettivo. O, meglio, siamo invitati ad essere tali. Gli architetti della scienza economica, siano essi i padri fondatori o i loro successivi seguaci, erano e sono del tutto consapevoli che il modello dell’uomo economico è, di per sé, una fandonia. Ma, ci dicono, è utile come ipotesi di studio, perché consente di modellizzare in termini analitici e matematici il comportamento umano e formulare previsioni. In effetti, per loro, l’utilità del modello non si esaurisce in questo: sta anche, e soprattutto, nel fatto che tale modello, più che spiegare il comportamento umano, prescriva un particolare comportamento come una norma da seguire. In primo luogo siamo invitati a non essere mai sazi, a guadagnare sempre di più, a spendere sempre di più. E, in questo, sembrerebbero averla avuta vinta, se guardiamo a quella minoranza che, sotto gli occhi di tutti, continua instancabilmente ad arricchirsi a spese degli altri, quell’1% della popolazione mondiale che è arrivata a possedere quanto il restante 99%, a cominciare dai manager che guadagnano in un solo giorno quanto un loro dipendente guadagna in un anno. Ma ci sono gli altri 99% …

Ventura ci ricorda che il pensiero economico ha avuto anche altre stagioni. Per gli economisti classici, sino a Marx, compito dell’economia era di spiegare le leggi fondamentali del funzionamento di un sistema economico, i modi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Poi - alcuni decenni dopo la formazione del nucleo dell’economia neoclassica - soprattutto in seguito alla grande crisi economica mondiale del 1929, si affermarono le idee di Keynes. Pur provenendo da una formazione marginalista, egli demolì l’idea di un mercato autoregolato, che tende spontaneamente all’equilibrio di piena occupazione, e costruì i presupposti per l’intervento pubblico dell’economia, intervento pubblico che ha poi caratterizzato lo sviluppo delle economie occidentali nei trenta anni “gloriosi”, dalla fine della guerra alla metà degli anni ’70 del secolo scorso: un periodo di elevata crescita con bassa inflazione, rapido aumento e diffusione del benessere in ampi strati della popolazione. Quando, per una molteplicità di ragioni, i meccanismi di una crescita stabile e sostenuta si sono inceppati, la scienza economica ha subito una completa torsione all’indietro, con il ritorno all’impostazione neoclassica. E questa volta hanno fatto sul serio, portando i presupposti metodologici della visone neoclassica alle loro estreme conseguenze, con una progressiva estensione del dominio del mercato ad ogni ambito del sociale e dei rapporti interumani.

La lettura che Ventura offre del significato profondo di tale passaggio è acuta. Per Keynes il dominio dell’economia era il sistema dei bisogni. Si è più volte ricordato il famoso saggio del 1930, Prospettive economiche per i nostri nipoti, dove si formulava la previsione che in un centinaio di anni l’umanità avrebbe definitivamente superato il problema della propria sopravvivenza. A quel punto, secondo Keynes, l’economia avrebbe del tutto esaurito la sua funzione e gli economisti avrebbero perso il loro ruolo sociale.

Con il ritorno all’economia neoclassica e con il neoliberismo, al centro dell’economia viene posta la questione della libertà di scelta individuale, che diventa il metro per le valutazioni di benessere. Ecco allora che il ruolo dell’economia e degli economisti non avrebbe mai fine, a perenne tutela e garanzia del dominio della scelta individuale, contro ogni spazio per l’intervento pubblico e l’azione collettiva. Con la Public Choice, anche la politica e le istituzioni diventano terreno di conquista, frantumate nell’agire atomistico di una molteplicità di attori (i politici, i manager pubblici ecc.) ognuno teso a massimizzare una propria funzione di utilità.

Ma la libertà del neoliberismo è svuotata di ogni contenuto umano. È una libertà verso le “cose” senza alcuna relazione con gli altri esseri umani. Un punto interessante del libro di Ventura è ove argomenta che proprio su questo terreno – quello della libertà – la sinistra ha perso la sfida con il neoliberismo. Stretta, da una parte, dalla visione del movimento operaio storico della libertà come libertà dai bisogni e, dall’altra, dai nuovi movimenti libertari degli anni ‘70, per i quali la libertà era ribellione a ogni vincolo di carattere familiare e sociale, la sinistra, senza un proprio pensiero, ha finito per essere inghiottita dalla visione del neo liberismo della libertà come libertà di mercato.

La prospettiva che Ventura ci propone è quella di tornare all’economia e alla politica in una prospettiva, lunga e paziente, di opposizione sul piano culturale, che muova da un totale rifiuto della visione antropologica alla base del neoliberismo. L’uomo economico non è natura umana. La società non è un insieme atomistico di individui isolati. Storicamente la più alta opposizione a questa idea è stata finora la teorizzazione, di matrice illuminista e marxiana, della socialità degli esseri umani. Ma si trattava di una socialità acquisita con la ragione, caratteristica dunque di un’età adulta (e solo maschile?). Ventura vi contrappone la “teoria della nascita” di Massimo Fagioli, secondo la quale la socialità è il prodotto della dinamica della nascita, quando il pensiero si forma come “capacità di immaginare”, non cosciente e non razionale, e contiene in sé la certezza che esista un altro essere umano. Una scoperta, che ha trovato conferma, ormai da più di cinquant’anni, in una prassi di lavoro di cura, formazione e ricerca psichiatriche, e costituisce ora un patrimonio potenziale di enorme valore anche per la ricerca nelle scienze sociali.

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