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linterferenza

Antisistema o funzionali al sistema?

di Fabrizio Marchi

In questi giorni, soprattutto sul sito https://sinistrainrete.info/ (che segnalo perché molto ricco ed interessante) ho letto molte analisi sul voto del 4 marzo. La gran parte anche molto interessanti e condivisibili, perché ciascuna ha affrontato e approfondito determinati aspetti che non sono stati affrontati in altre e così via. Tutte o quasi molto articolate e che puntano, giustamente, ad individuare le ragioni – sociali, economiche, politiche – che hanno determinato quell’esito. E non c’è dubbio che un risultato come quello scaturito dalle urne poche settimane fa abbia diverse cause che devono essere analizzate con la necessaria lucidità e capacità di cogliere, appunto, la complessità di un fenomeno. E anche noi non ci siamo sottratti: http://www.linterferenza.info/editoriali/elezioni-2018_tutto-cio-che-e-reale-e-razionale/

Leggendo e rileggendo, come spesso mi succede (non solo al sottoscritto, ovviamente…) mi è venuto alla mente un aspetto che non avevo ancora focalizzato. Sia chiaro, è solo un altro piccolo tassello del mosaico che non ha la pretesa di essere esaustivo o risolutivo, ovviamente, e che tuttavia gioca la sua parte. Ed è un aspetto che riguarda la sfera psicologica-mediatica, diciamo così, oltre che politica in senso stretto.

Al contrario di ciò che avveniva nella prima repubblica, dove in ultima analisi, per lo meno ai numeri, finiva per prevalere il partito più “rassicurante” o meglio, percepito più rassicurante, oggi (da tempo) risulta vincente la forza politica o il leader politico percepiti come di rottura, come quelli che rompono gli equilibri del sistema.

Renzi trionfò letteralmente alle europee del 2014 (sbaragliando in quella fase, il M5S) perché fu abile a costruirsi l’immagine dell’uomo di rottura rispetto ai vecchi equilibri politici, il famoso “rottamatore” (concetto tramontato col tramontare della sua stella politica…). Ma rottamatore di cosa? Di una vecchia classe politica, soprattutto quella del suo partito (che lui aveva scalato con metodi spregiudicati, ma in politica la spregiudicatezza non è sempre un demerito o una colpa…) che lui stesso aveva messo ai margini, accusandola di essere quella che bloccava il rinnovamento sia politico che generazionale, oltre ad essere naturalmente compromessa con la “vecchia politica”, che nell’immaginario comune è quella degli “inciuci”, della commistione fra affari e politica, della “casta”, dei privilegi, del consociativismo, della corruzione ecc.

E proprio Renzi, che di quella politica e di quella classe politica è figlio, è riuscito a costruirsi l’immagine dell’innovatore, dell’ “antisistema”. Proprio lui, leader del partito per eccellenza garante della “governance”, è stato capace di presentarsi alla gente come un uomo di rottura, addirittura come un “antisistema”. E proprio per questo ha avuto successo, ben al di là dei famosi 80 euro in busta paga.

A noi viene da ridere, ovviamente, ma è andata così. Renzi, in quella fase, è stato sostenuto dal mondo imprenditoriale italiano e anche dai vertici dell’UE perché il suo obiettivo – in accordo con quelli – era di sbaraccare quei vincoli politici e giuridici che ancora costituivano un minimo di garanzia per i lavoratori, in favore delle imprese. Il Job’s Act andava tutto in quella direzione. Così come il tentativo, poi fallito, caldeggiato in ambienti UE, di modificare la Costituzione. Ma in realtà quel tentativo fallì perché la sua stella aveva già cominciato a tramontare, l’immagine del “rottamatore” si era inesorabilmente appannata (proprio perchè non più percepita come antisistema…) ed era già stato abbandonato da quei poteri forti che in un primo momento gli stavano alle spalle e che sono sempre molto abili nell’ “odorare” le cose e a cambiare cavallo in corsa purchè siano sempre loro a tenere le briglia…

Però, ripeto, proprio lui, uomo del sistema, o “modernizzatore” del sistema (una “modernizzazione”, ovviamente, tutta in chiave neoliberista, funzionale al padronato e al suo management, alle burocrazie che governano l’UE e ai mercati internazionali), fu abile a presentarsi all’elettorato come l’uomo del cambiamento, della rottura, dell’ “antisistema”, al punto di prevalere, con quasi il doppio dei consensi, sul partito antisistema per definizione, cioè il M5S.

Un paradosso, se vogliamo, ma solo apparentemente. Perché ci spiega come ormai il concetto di “antisistema” sia in realtà tutto interno al sistema stesso, e come anzi, sia una creatura di quest’ultimo. Perché nella totale assenza di una vera dialettica politica, che può esserci solo tra forze portatrici di istanze, programmi, idee, valori e orizzonti realmente alternativi e antagonisti (anche e soprattutto al sistema dominante…), il concetto di “antisistema” viene in realtà completamente assorbito dal sistema stesso che lo declina nella possibilità di riformare o “modernizzare” se stesso e quindi nella scelta delle forze politiche e del leader politici (specie nell’era della personalizzazione della politica) più adatti a tale scopo.

Questo processo, naturalmente, risulta vincente, perché si fonda sull’accettazione o meglio sulla interiorizzazione da parte di tutti (o quasi) del sistema capitalistico, considerato ormai come un dato di fatto, dal quale non si può prescindere. Non quindi – come abbiamo ripetuto tante volte (ma repetita iuvant…) – come una forma storica dell’agire umano, ma come una vera e propria condizione ontologica e come tale non trasformabile e non superabile.

Partendo da questa premessa, capiamo come sia del tutto ovvio e conseguente che il concetto di “antisistema” venga in realtà concepito tutto interno al sistema e finisca anzi per diventargli ancora più funzionale. Perché anche quelle istanze che vengono percepite come “antisistema” sono in realtà del tutto interne alle logiche di autorigenerazione (e riproduzione) del sistema stesso. Anche i concetti di conservatorismo e di riformismo vengono a perdere (e hanno da tempo perso) il loro antico significato. Stando così le cose, un “riformista”, può essere più funzionale al sistema di un conservatore o viceversa, a seconda dei casi e del bisogno, come si suol dire. Anche Berlusconi, non a caso, si definiva e continua a definirsi un “riformista”, anche se moderato. Anche e soprattutto la radicale Bonino, che è una fervente ultraliberista e addirittura fanaticamente filo europeista (oltre che filo atlantica e filoisraeliana). Eppure sia l’uno che l’altra si erano presentati come elementi di rottura e avevano ottenuto larghi consensi (specie il primo) proprio in virtù del loro presunto essere “antisistema”.

Oggi, dopo Berlusconi e Renzi, tocca a Salvini e a Di Maio (ma prima di lui a Grillo) recitare questa parte in commedia. Naturalmente, lo ripetiamo ancora, tutta interna al sistema che nessuno di loro ha la minima intenzione di mettere in discussione. Lo scontro è fra chi sarà in grado di gestire meglio la transizione politica, o meglio, fra chi sarà in grado di coniugare le esigenze di modernizzazione del sistema con il mantenimento della pace sociale. Con tutte le contraddizioni che ciò comporta, naturalmente. Ma è proprio la capacità di governare queste contraddizioni che fa sì che un partito sia funzionale e venga anche considerato “grande”. Non c’è dubbio sul fatto che, da questo punto di vista, la vecchia Democrazia Cristiana sia stata senz’altro un “grande” partito, capace di garantire la governance per un quarantennio operando una mediazione fra interessi sociali oggettivamente in conflitto all’interno di un contesto internazionale dominato dalla guerra fredda e dal confronto fra USA e URSS (che però favoriva la stabilità politica…). La stella di Andreotti cominciò a brillare quando era ancora giovanissimo e ha continuato a brillare per quarant’anni. Non è poco e non è da tutti. Di Maio e/o Salvini (pur nelle rispettive differenze) avranno la stessa capacità e lo stesso luminoso avvenire?

Noi lavoriamo per e ci auguriamo ben altri orizzonti ma questo è un altro discorso ancora…

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