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Le idi di Marzo della politica italiana

di Antonio Lettieri

Rivoluzionato il quadro dei partiti e bocciato la politica dell’eurozona: dopo la democratica rivolta elettorale del 4 marzo è tempo di rovesciare la strategia fallimentare adottata dai passati governi. Un compito tutt’altro che facile, ma anche un'occasione da non perdere

E’ spesso complicato interpretare i risultati elettorali quando il sistema non è bipolare e il governo è direttamente consacrato dalle urne. Ma, pur non fornendo una chiara indicazione di governo, il risultato delle elezioni del 4 marzo ha un inequivocabile significato, riassumibile in due punti.

Il primo è il ripudio dei due partiti maggiori: il PD, nelle sue successive varianti, e Forza Italia - i due schieramenti che hanno dominato la scena politica dell’ultimo quarto di secolo. Il secondo è la vittoria netta delle Cinque stelle con un risultato che supera la somma dei voti guadagnati insieme dal PD e da Forza Italia.

Non meno significativo è che il risultato delle Cinque stelle, circa il 33 per cento dei voti espressi, corrisponda al risultato ottenuto in Germania, con il sostegno dei due partiti gemelli (CDU e CSU), da Angela Merkel eletta per la quarta volta alla cancelleria. Se il risultato elettorale del 4 marzo non rivoluziona la geografia politica italiana, bisogna chiedersi che altro dovrebbe succedere.

Luigi Di Maio è legittimamente candidato a essere incaricato dal presidente Mattarella a formare il nuovo governo. Vi riuscirà? Per ora, sappiamo che Di Maio ha espresso una preferenza del Movimento per un’intesa a sinistra col PD, e che Matteo Renzi ha compiuto l’ultimo gesto da segretario dimissionario sprezzantemente ripudiando la proposta. Ciò non toglie che, nel corso di una crisi che si annuncia lunga e complicata, la posizione del PD, col rimescolamento delle carte nel suo gruppo dirigente, potrebbe cambiare.

In alternativa, potrebbe concretizzarsi l’ipotesi, per ora remota, di un governo Cinque stelle - Lega su un programma che selezioni i punti meno controversi o più avvicinabili come il lavoro, la spesa pubblica per investimenti, la cancellazione del Jobs Act e la revisione della riforma pensionistica, il reddito di cittadinanza o misure analoghe contro la povertà – un possibile programma che la vulgata corrente definisce “populista”.

 

Quale governo?

Tralasciando il terreno scivoloso delle previsioni, per loro natura soggette a essere smentite, la cosa certa è che, alla fine, il paese dovrà avere un governo. In extremis, un governo del Presidente, o comunque lo si voglia denominare, con l’obiettivo formale di predisporre un nuovo sistema elettorale. Obiettivo, in realtà, solo di facciata, dal momento che, eventualmente, il non agevole compito spetterebbe a un maggioranza parlamentare con interessi contrastanti.

Il vero compito di un governo di emergenza sarà la gestione dei rapporti con la Commissione europea nella fase di elaborazione e approvazione della legge di bilancio. Compito arduo per qualsiasi governo, e tanto più per un governo privo di una propria maggioranza, e segnato dalle divergenze che, proprio sul terreno dei rapporti europei, rendono complicata la formazione di un governo di coalizione. In sostanza, un governo di emergenza, basato su una maggioranza eterogenea, non potrà avere vita lunga, ed è ragionevole mettere in conto il ritorno alle urne già in autunno o nella primavera del 2019.

Il rapporto con Bruxelles sarà il nodo gordiano del prossimo governo. Non a caso, tutta la stampa europea che conta ha posto al centro dei commenti sul voto del 4 marzo i rapporti dell’Italia con l’eurozona. E il Financial Times vi ha dedicato l’apertura della prima pagina, un editoriale e una serie di analisi e commenti.

 

L'intreccio di due crisi

Si può far finta di ignorare che l’eurozona registri la più bassa crescita e la più alta disoccupazione a dieci anni dall'l’inizio della crisi? Non a caso fa eccezione solo la Germania che, con il passaggio alla moneta unica, ha garantito al vecchio marco un cambio sottovalutato rispetto al dollaro e alle altre principali valute – un livello del cambio che sarebbe stato incompatibile col suo stratosferico avanzo della bilancia commerciale.

Ma l'aspetto più rimarchevole è lo stretto rapporto fra la crisi dell’euro e la crisi dei partiti di centrosinistra. Tutte le più recenti prove elettorali hanno fatto registrare la sconfitta dei partiti socialdemocratici, custodi delle regole neoliberiste fissate a Bruxelles.

Il caso più clamoroso è rappresentato dalla Francia, il paese all’origine del’euro con Mitterrand e Delors, che paga duramente la crisi dell’eurozona con la stupefacente scomparsa dalla scena politica del Partito socialista, ridotto a un umiliante sei per cento del voto, a cinque anni dal trionfale successo di François Hollande su Nicolas Sarkozy.

Non è andata molto meglio in Spagna, al Psoe, lungamente alla testa del governo nell’era post-franchista, col peggiore risultato della sua storia, ridotto a sostenere dall'esterno il governo di minoranza di Rajoy. E non meno significativa è stata la débacle della SPD che, sotto la guida di Martin Schulz – ironia della sorte, ex presidente del Parlamento europeo – ha dovuto registrare il peggiore risultato elettorale del secondo dopoguerra. Altri esempi potrebbero essere citati, come il caso dell’Austria, dove il vecchio partito socialdemocratico, fondato al tempo di Marx, stabilmente alla testa o nella coalizione di governo, ha ceduto il passo a una coalizione di destra con posizioni apertamente euroscettiche.

La sconfitta del PD che in percentuale perde oltre la metà dei voti rispetto alle elezioni europee del 2014 è perciò tutt’altro che un episodio isolato. Si colloca nel panorama di rovine della sinistra di governo in Europa – con l’unica eloquente eccezione del Partito laburista che, non a caso, Jeremy Corbyn ha guidato nel segno del ripudio della vecchia politica blairiana.

In effetti, la crisi simultanea delle sinistre di governo non ha nulla di casuale: è il prezzo pagato al sostegno fornito alle politiche neoliberiste che governano l’eurozona: dalla liquidazione del ruolo dello Stato in economia all'attacco allo Stato sociale, ai sindacati e alla contrattazione collettiva. Tutte circostanze che hanno creato nuovi squilibri sociali, precarietà e diseguaglianza. Hanno in questo modo contribuito a dislocare il voto verso le formazioni di destra: fenomeno che i governi di centrosinistra, invece di ricercarne le cause nelle proprie scelte politiche, hanno voluto ascrivere alle categorie del populismo e del nichilismo protestatario.

 

L’eurozona in questione

Il rapporto con l’eurozona, benché tenuto in ombra, è, in effetti, il punto nevralgico dello scontro politico in corso. Non sfugge a Massimo Giannini che su Repubblica del 10 dicembre scrive che “i rapporti con l’UE… e il rispetto degli impegni assunti” dovranno definire la natura del nuovo governo. La fede mistica nella politica dell'eurozona oscura il fatto che l’Italia, vittima del binomio austerità- riforme strutturali, ha attraversato l’ultimo decennio oscillando fra recessione e ristagno.

E, senza il senso del grottesco, si esalta una stentata crescita dell’1,5 per cento, la più bassa in Europa, accompagnata da uno dei più elevati tassi disoccupazione che, se nella media si attesta sull'11 per cento, nelle regioni del Mezzogiorno tocca il 20, con una disoccupazione giovanile intorno al 60 per cento, anche questa il doppio della media italiana.

Un quadro complessivamente paragonabile solo a quello della Grecia ma, per molti versi, peggiore, se si considera che il Mezzogiorno ha una popolazione pressoché doppia di quella greca. Ma quale che sia il nuovo governo. l'Italia dovrà rispettare - scandisce il coro della grande stampa - le regole fissate a Bruxelles. Il risultato delle elezioni come un casuale incidente di percorso. Poi tutto deve riprendere come se nulla fisse successo.

Non si tratta di uscire dal’euro, ma di respingerne le regole “stupide”, secondo una memorabile definizione di Romano Prodi, quando era presidente della Commissione europea. Regole fra le quali bisogna annoverare al primo posto il pareggio del bilancio, un obiettivo arbitrario, che blocca qualsiasi programma di ripresa economica e di politica sociale. Le vecchie regole di Maastricht raccomandavano un limite del disavanzo di bilancio del tre per cento. Poi, col Fiscal compact, peraltro ormai scaduto, è stato consolidato l’obbligo del pareggio. Obbligo al quale la Francia e la Spagna, per citare due grandi paesi, non si sono mai attenuti nel corso della crisi.

La differenza fra il pareggio del bilancio e un disavanzo fissato intorno al paradigma del tre per cento è di circa 50 miliardi di euro l’anno: una differenza in grado di cambiare gli indirizzi della politica economica e sociale, liberando l’Italia dalle forche caudine della deflazione – una forma aggiornata del vecchio salasso.

Il disavanzo del bilancio non è un lusso ma, nelle attuali circostanze di bassa crescita, alta disoccupazione e intollerabili squilibri regionali, è una scelta obbligata per rilanciare la crescita e l'occupazione. Quanto al debito pubblico, accresciuto in Italia durante la crisi anche in virtù delle politiche di austerità, sappiamo che si può ridurre solo se aumenta il PIL. E questo aumenta solo con un grande rilancio degli investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel sostegno alle attività produttive, nel contrasto alla disoccupazione, a partire dal Mezzogiorno.

Non vi è niente di misterioso nelle ragioni del disastro economico e sociale che ha messo in ginocchio l’Italia. Ora si dà l'occasione dopo la democratica rivolta elettorale del 4 marzo di rovesciare la strategia fallimentare adottata dai passati governi. Un compito tutt’altro che facile, Ma anche un'occasione da non perdere.

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