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Dal partito della nazione al partito della reazione

di Militant

Si profila all’orizzonte un governo Lega-M5S. Difficile, ma non impossibile, e soprattutto non inimmaginabile. Guardando alla composizione sociale del bacino elettorale dei due partiti, si scoprirebbero molte più corrispondenze di quanto a prima vista potrebbe intendersi. Ambedue gli elettorati – quello leghista più omogeneo, quello pentastellato maggiormente frastagliato – condividono lo stesso bisogno di protezione dall’eccessiva mobilità dei grandi capitali. Protezione che altrove, pensiamo all’America di Trump, è stata tradotta con politiche di dazi doganali, per ora più minacciati che reali, e che però hanno come obiettivo quella stessa “difesa” di relazioni produttive scompaginate dall’esplosione del commercio estero. Sembra delinearsi uno scontro tra operatori – siano essi imprenditori o lavoratori – orientati al mercato interno e la parte dell’economia direttamente collegata alla competizione internazionale. Uno scontro che però, stretto in questi termini, si configura come conchiuso tra un polo liberista e uno reazionario. La critica alla Ue – che poi è parte di una più generale critica alla globalizzazione liberista – ha preso forma e forza da destra.

In primo luogo, perché presentare un’oggettiva convergenza tra “operatori” del mercato nazionale non fa che rafforzare il controllo ideologico padronale nel rapporto tra capitale e lavoro: datori di lavoro e lavoratori trovano una ricomposizione politica su parole d’ordine favorevoli esclusivamente alle imprese e non ai loro dipendenti; in secondo luogo, perché questo circuito chiuso lascia fuori quote importanti di proletariato non ricompreso nel “lavoro” che vorrebbe salvaguardarsi con le proposte populiste-reazionarie, in particolare migranti e la vasta area della precarietà lavorativa non contrattualizzata né riconosciuta come interlocutrice sociale; terzo poi, una critica della Ue espressa nei termini del “ritorno” a forme di capitalismo “pre-globalizzato” sono di fatto irrealistiche. La globalizzazione va spezzata alla radice, ma il mondo nuovo che emergerà da questa operazione di resistenza non assomiglierà al vecchio Novecento, non fosse altro che la storia tende a procedere in avanti e non tornando a immaginarie caselle di partenza. La sinistra, scomparsa dai radar, ha la responsabilità più grave proprio nell’aver lasciato alla reazione un terreno di lotta che invece corrisponde per intero agli interessi dei suoi storici referenti sociali, l’area vasta, maggioritaria, della subordinazione sociale e del lavoro salariato. L’attuale e impossibile autonomia di questa sinistra la costringerà, cosa che sta già avvenendo, di volta in volta ad appoggiare ora l’Unione europea come “argine” al populismo xenofobo, ora forme plateali di reazione piccolo-borghese fondate non sulla questione nazionale, tema dirimente a cui trovare risposte originali, ma su nazionalismi proprietari interpretati come “male minore” rispetto alle potenzialità distruttive dei grandi capitali globalizzati. Un futuro di subordinazione culturale che non fa che rispecchiare la propria marginalità politica.

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