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senso comune

Il rebus della legislatura e il momento populista

di Tommaso Nencioni

A quasi un mese delle elezioni non si ha ancora ben chiaro se l’attuale legislatura andrà a costituire l’ennesimo tassello della transizione italiana o il primo atto della Terza Repubblica. Quando ci si riferisce ad una nascente Terza Repubblica ci si riferisce alla costituzione materiale del Paese e agli influssi su di essa del sistema politico, che potranno trovare o meno una cristallizzazione in una riscrittura della Carta del ’48. Nel cui quadro, è bene ricordarlo, hanno trovato viabilità progetti antitetici come il primo centro-sinistra della nazionalizzazione dell’ENEL e il berlusconismo, il riformismo parlamentare degli anni Settanta e il governo Monti. Per dire che la Costituzione del ’48 ha dimostrato una elasticità sostanziale che ha travalicato di gran lunga le proprie rigidità formali.

Nei palazzi del potere si vive un clima elettrizzante e incerto da primo giorno di scuola. Il carattere di novità che si respira nella politica italiana, la vittoria travolgente del M5S, l’entusiasmo che ha generato tra i suoi, hanno gettato una luce di speranza molto costruita a posteriori rispetto alle ragioni che hanno portato parte dell’elettorato a riservargli un così eclatante appoggio: stanchezza, disillusione a prescindere verso le forze politiche tradizionali, scommesse da ultima spiaggia (“le ho provate tutte, proviamo anche loro” ecc.).

D’altra parte, in questi anni si è creato attorno al grillismo uno “zoccolo duro” difficilmente quantificabile ma sostanzioso. In quale percentuale sia quindi un voto convinto, e in quale percentuale invece si tratti di un voto estremamente mobile e pronto a tornare all’astensione, alle forze politiche tradizionali, o a formazioni populiste già operanti o di là da venire, resta difficilmente quantificabile. Nel tracciare questo senario, tuttavia, si partirà da una fotografia statica degli attuali rapporti di forza parlamentari, tenendo solo sullo sfondo le potenziali evoluzioni dell’opinione pubblica.

Premessa: tornare al voto?

La maggior parte dei commentatori dà per scontato che non si tornerà a votare a breve. Da questo punto di vista, la vicenda delle elezioni delle presidenze delle Camere non fornisce indicazioni precise. Si è trattato, per così dire, di una elezione al buio, senza cioè che questa desse indicazioni certe circa la composizione futura dell’esecutivo. Bisogna tenere conto che nessuna delle soluzioni parlamentari che le forze politiche hanno esplicitamente prospettato – e neppure nessuna delle soluzioni che le forze politiche hanno implicitamente ventilato – nel corso della campagna elettorale ha la minima possibilità di affermarsi dal punto di vista dell’aritmetica parlamentare. Questo dato di fatto, il cui peso è relativizzatile solo fino a un certo punto, spingerebbe verso una ripetizione del voto.

Tuttavia forze ed esigenze ancor più corpose spingono verso la ricerca di una soluzione all’interno dell’attuale quadro parlamentare. 1) Una ripetizione delle elezioni, a legge elettorale invariata, non porterebbe ad un quadro sostanzialmente diverso; una legge elettorale nuova e tendenzialmente bipolarizzante, ammesso e non concesso di poterla approvare in breve tempo, penalizzerebbe tutte le forze in campo ad esclusione del M5S. 2) Il Presidente della Repubblica e potentissime forze extra-parlamentari spingono verso la ricerca della stabilità già in questo quadro parlamentare. 3) I parlamentari non vogliono tornare a votare. Questo è un fattore strutturale della storia della II Repubblica. In assenza di solidi legami con strutture partitiche organizzate, la volontà del singolo parlamentare di perpetrare il proprio status ha oggi una rilevanza politica forte. Le forze sconfitte temono poi di esserlo ancora di più. Le forze vittoriose hanno paura di non ripetere una vittoria di queste proporzioni. Forse solo la Lega ha legittime prospettive di crescita, se pure in un quadro di incertezza che analizziamo sotto. Meno il M5S, che probabilmente il 5 marzo “ha fatto il pieno”; e comunque bisogna tenere presente la regola dei 2 mandati, per cui i frutti di un eventuale successo maggiorato non verrebbero goduti da gran parte degli attuali eletti. 4) L’elettorato ha sempre meno voglia di votare e reagirebbe male ad una nuova chiamata alle urne: aumento dell’astensione, della disaffezione ecc. 5) Sembra presto per parlarne, ma ad equilibri vigenti le due forze vincitrici avrebbero l’occasione nel 2022 di esprimere la Presidenza della Repubblica.

Primo scenario: governo di uno dei due vincitori.

I regolamenti parlamentari italiani nella pratica impediscono la formazione di governi di minoranza, sul modello spagnolo per intendersi, in cui la forza più votata viene agevolata nella presentazione dell’esecutivo e poi governa cercando i voti di volta in volta in parlamento. La storia della II Repubblica ci insegna che il trasformismo esasperato dei peones potrebbe dare una spinta ad un’ipotesi di questo tipo. Ma i numeri che mancano sia ad un governo di centro-destra che ad un monocolore M5S sono così elevati che si renderebbe necessaria una transumanza di proporzioni tali da gettare nel discredito l’intera Repubblica, oltre che le forze che se ne gioverebbero. Anche il Presidente della Repubblica non potrebbe non prenderne atto e preferire lo scioglimento delle camere. Una parziale soluzione a questo scenario è la nascita di un nuovo partito renziano nell’orbita di centro-destra. Ne parlo successivamente, ma Renzi è troppo intelligente per ridurre il suo progetto ad una scissione parlamentare al servizio di Berlusconi.

Secondo scenario: governo M5S / PD.

In teoria una soluzione praticabile, specialmente in caso di appoggio esterno del PD. Ma questa soluzione dovrebbe fare affidamento su una sconfessione totale del renzismo anche da parte dei fedelissimi di Renzi. Il PD è attualmente inutilizzabile per qualsiasi soluzione della crisi, ostaggio di un leader sull’Aventino, irato con le forze politiche e intento a chiedere le dimissioni del popolo italiano che non gli ha dato fiducia. Incapace insomma di digerire la sconfitta e di permettere al proprio partito un ricalcolo della propria strategia.

Terzo scenario senario: governo M5S / PD / LEU con scissione di Renzi.

Salverebbe apparentemente capra e cavoli. Il M5S riceverebbe l’investitura per un monocolore. La stabilità della legislatura sarebbe garantita. All’ombra del M5S si ricompatterebbe l’area del centro-sinistra. Renzi acquisterebbe margini di manovra autonoma e tempo per riorganizzarsi; i parlamentari renziani miracolati non strapperebbero il biglietto della lotteria vincente il 4 marzo. Se lo schema Draghi sopravvivesse alla Presidenza Draghi della BCE si prospetterebbe una situazione di tipo portoghese, un’attuazione soft dei dettami della troijka che rispetto agli ultimi tempi di austerità selvaggia potrebbe pure garantirsi spazi di consenso nella società. I poteri europei ed i “mercati” sarebbero rassicurati dalla dipendenza del governo dall’appoggio della forza “responsabile” per eccellenza. Controindicazioni: 1) l’opposizione compatta del centro-destra, cioè della coalizione di fatto vincitrice delle elezioni; 2) un peggioramento del quadro economico costringerebbe il PD a far cadere questo governo su una piattaforma impopolare, tipo no alla riforma della legge Fornero ecc. 3) Sono da verificare le possibilità di sopravvivenza di un PD senza Renzi e di un Renzi senza PD.

Quarto scenario: governo dei “vincitori”.

Ovvero Governo M5S/Lega. Si tratta dello scenario numericamente più stabile. E forse, almeno nell’immediato, anche ideologicamente più compatibile. Ma sconta alcune pesanti controindicazioni: 1) al di là della retorica Renzi / Repubblica, i due elettorati si sono diversificati, non solo sulla questione immigrazione e Europa; 2) vera o presunta, comunque, che sia questa diversificazione, le due forze sono vitalmente interessate a manifestarla e ad intestarsi, ognuna da par suo, il ruolo di capofila in un ipotetico futuro scenario bipolare. Un loro governo ricompatterebbe le opposizioni specialmente di sinistra e darebbe loro lo scudo delle istituzioni internazionali; 3) è tutta da verificare la possibilità di sopravvivenza, materiale e politica, della Lega slegata dal berlusconismo, ed anzi vittima dei suoi attacchi politici.

Quindi?

Bisogna tornare al punto di partenza, e cioè non al 5 marzo, ma al 3 marzo, a quel clima di disillusione che permeava la campagna elettorale. In questo senso, pare difficile che una qualsiasi delle soluzioni possibili per aritmetica parlamentare riesca a saldare il divario creatosi in questi anni tra Stato e popolo, politica e società. A maggior ragione nell’eventualità di un peggioramento del quadro economico generale o semplicemente di un avvicendamento alla guida della BCE meno favorevole per il Paese.

Di sicuro si può dire che il momento populista non è destinato ad esaurirsi, e che non è detto che le forze protagoniste dell’attuale legislatura riescano ad assorbirlo.

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