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senso comune

Populismo, cittadinanza e Costituzione

di Giulio Di Donato 

La Costituzione italiana si occupa specificatamente della cittadinanza solo all’art. 22, stabilendo il principio per cui non si può esserne privati per motivi politici.

Nel 1948 la Costituzione repubblicana si preoccupava di riconoscere espressamente la libertà di emigrazione e di sancire la tutela del lavoro italiano all’estero, disinteressandosi invece dei problemi legati all’immigrazione (allora inesistenti), salvo il richiamo al diritto d’asilo, ovvero fondando lo “statuto costituzionale” degli stranieri essenzialmente sul diritto internazionale (art.10).

Dal testo della Costituzione italiana mancano, quindi, specifiche norme sull’immigrazione. Fra le eccezioni possiamo annoverare il celebre articolo 3 che afferma il principio di uguaglianza dinanzi alla legge «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ciò significa che lo status dell’individuo dinanzi alla legge non dipende dalla sua origine nazionale. La Corte costituzionale ha peraltro rimarcato più volte che il principio di uguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (previsti nell’art. 2) valgono anche per lo straniero.

Sono però le Carte internazionali dei diritti umani, su tutte la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU del 1948, a introdurre accanto ai classici divieti di discriminazione per sesso, razza, colore, lingua, religione, condizione sociale, il divieto di discriminazione in base all’“origine nazionale”, e cioè in base alla cittadinanza.

Il riconoscimento di un nucleo di diritti inviolabili comuni a tutti gli esseri umani introduce così un varco che allenta la differenza cittadino/non cittadino. I diritti del cittadino sono oggi sempre più visti e trattati come diritti dell’uomo.

Se i diritti del cittadino tendono ormai a cedere il posto, entro certi limiti, ai diritti dell’uomo, altrettanto può dirsi per i doveri costituzionali. Tra i doveri tradizionalmente posti a carico dei (soli) cittadini vi sono il dovere di difesa della patria e il dovere di fedeltà alla Repubblica, mentre il dovere di concorrere alle spese pubbliche attraverso il prelievo tributario prescinde dal requisito della cittadinanza.

Cosa resta allora del tipico contenuto della cittadinanza, e quindi, che cosa differenzia essenzialmente, oggi, lo statuto dello straniero da quello del cittadino? Resta uno statuto di esclusione dello straniero rispetto ai diritti chiamati politici, ovvero il diritto di partecipare alla vita politica tramite il voto e la possibilità di accedere alle cariche e agli uffici pubblici; e resta l’esclusione degli stranieri dal diritto di entrare o rientrare, e di restare o stabilirsi, sul territorio dello Stato (salvo alcune eccezioni, vedi il caso dei titolari di permesso da lungosoggiornante che sono meno sottoposti rispetto agli altri stranieri regolarizzati a questo tipo di restrizioni).

L’allentamento della distinzione fra cittadini e non cittadini, soprattutto per quel che riguarda il godimento dei diritti fondamentali delle persona umana, è senz’altro un fatto positivo; a questo processo si è accompagnato tuttavia l’affievolimento dell’idea di cittadinanza democratica, ovvero l’attenuazione del vincolo di appartenenza del singolo alla propria comunità politica di riferimento provocato fondamentalmente dai processi di svuotamento della sovranità democratica dall’alto e di sradicamento sociale in basso ai quali abbiamo assistito negli ultimi decenni.

L’indebolimento del vincolo politico e del legame sociale fra le persone naturalmente si ripercuote negativamente sulle dinamiche legate all’impatto dei fenomeni di immigrazione. E così una società disgregata e atomizzata come la nostra, che ha ben poco che la tenga unita, rischia di ricomporsi e ricompattarsi su basi etnico-identitarie e cioè attorno ad una contrapposizione carica di ostilità e diffidenza fra autoctoni e stranieri.

Rigenerare il vincolo politico significa porsi il tema del recupero della sovranità democratica nazionale per restituire senso alle promesse di trasformazione sociale iscritte nella Costituzione repubblicana (oltre che per rilanciare su nuove basi un processo diverso di cooperazione e solidarietà fra i paesi europei) e lavorare alla ricomposizione di un tessuto sociale (un mondo del lavoro) oggi estremamente frammentato e individualizzato.

Sono, quindi, soprattutto le forme della sovranità politica democratica e del legame sociale che chiedono di essere urgentemente ridefinite e recuperate.

In questa fase, il “populismo” – come si è scritto più volte – diventa uno strumento politico in grado di unificare istanze insoddisfatte provenienti da una società frammentata e dar vita ad un nuovo senso di comunità ed appartenenza. Un populismo democratico che utilizza linee di frattura progressive (popolo vs élites) e che è ben consapevole che dietro l’idea di popolo non c’è un’essenza o una sostanza compatta ed omogenea, perché il popolo non esiste in natura, ma è una costruzione artificiale, il frutto di una mobilitazione politica, qualcosa che esiste solo come oggetto di una rappresentazione che lo produce e lo mette in forma.

Oggi il populismo rappresenta tra l’altro una risposta a tutta una serie di bisogni spesso trascurati dai partiti tradizionali di sinistra, quali ad esempio i bisogni di appartenenza e identità, che sono profondi e radicati e possono essere declinati in modi anche democratici e aperti.

La questione, una volta di più, è quella – cruciale – dei processi di integrazione politica e sociale. Cosa ci fa stare assieme? Come questo stare assieme può essere realizzato? Quali sono i processi che determinano il senso di appartenenza a una comunità politica? Nella modernità la nazione ha compensato il vuoto lasciato dalla religione con l’avvento della secolarizzazione (la democrazia, va ricordato, nasce e si sviluppa nel mondo moderno come democrazia “nazionale”). A svolgere quella funzione di unificazione politica sono intervenute nel Novecento i partiti e le identità politiche di massa e anche, in un certo senso, il Welfare State. Dopo l’eclisse della nazione (almeno in Europa) e la crisi delle appartenenze politico-ideologiche, cosa occupa oggi quel vuoto simbolico che caratterizza gli ordinamenti secolari (N. Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Laterza, 2014)?

Come strumento di mobilitazione e unificazione politica c’è la tensione verso una società altra a cui allude la nostra Costituzione (quasi un recupero del nesso politico/simbolico: se ogni Costituzione democratica è un potente strumento di integrazione politica e di cambiamento sociale, non può fare a meno – citando Habermas – del senso di ciò che manca e perciò è ancora possibile), ma si tratta di un’opzione priva di significato e di prospettiva concreta nell’ambito dell’attuale architettura UE.

Come aveva già acutamente notato Pietro Barcellona in suo saggio del 1994 (La “città degli affetti” contro il falso universalismo, in “Democrazia e diritto”), stiamo vivendo una contraddizione dentro il percorso della modernità: la logica della “singolarizzazione” e del “funzionalismo” (la riduzione di tutto a funzione, a calcolo economico utilitaristico ha come altra faccia il dispiegarsi illimitato dei desideri individuali) – questa la sua analisi – tende a dissolvere tutti gli spazi e i luoghi sociali; tuttavia resta una grande domanda di rapporto col territorio, di ricollocazione territoriale della propria identità, che trova spesso una facile risposta nel richiamo in forma mitologica all’etnia e alla razza, o enfatizzando il ruolo del capo, del leader, che diventa quasi l’espressione dell’unità di una comunità. Così come non sappiamo dove ritrovare le nostre radici e perciò le collochiamo all’interno di un’immaginifica matrice etnico-razziale oppure attorno ad un concetto di nazione ammantato dell’alone sacrale di una qualche primordialità metafisica, così non sappiamo dove collocare la nostra proiezione soggettiva e la identifichiamo nel personaggio del capo politico. Ma se stiamo vivendo in un contesto in cui il bisogno di comunità viene riproposto, anche se in forme regressive, c’è da comprendere se a partire da questo bisogno – non negandolo (perché quando i bisogni vengono negati, come i desideri, ritornano in forma negativa perché sono stati rimossi), ma cercando di interpretarlo -, possiamo formulare una risposta che faccia intravvedere una via d’uscita verso una convivenza più ricca e consapevole, che rinsaldi un sentimento positivo di appartenenza e comunità.

Quel che è certo è che la necessità di legami prepolitici e di comunità per il buon funzionamento di una democrazia rappresenta il punto forse più trascurato nella cultura della sinistra.

Eppure, come ha sostenuto R. Dahrendorf (Quadrare il cerchio, Laterza, 1995) il sentimento di coesione e di lealtà politica fra i cittadini è una variabile essenziale di un sistema democratico. E la coesione e la lealtà politica – per quanto astrattamente garantite nelle società moderne dallo strumento del diritto – suppongono comunque l’esistenza di legami prepolitici fra i membri del gruppo, rinviano ad una identità collettiva, come giustamente afferma Danilo Zolo in un suo prezioso e imprescindibile libro di diversi anni fa (I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, 2001). Ed è provato che la tenuta dei legami identitari si fa sempre più incerta via via che l’ambito geopolitico di uno Stato si dilata fino a includere culture molto diverse fra loro (R. Dahl, in Sulla democrazia, Laterza, 2002, pone il dato di un limitato pluralismo subculturale fra le condizioni favorevoli alla democrazia). Neppure il più astratto “patriottismo dei diritti” può fare a meno, per così dire, di una qualche “intimità” fra i membri del gruppo (Böckenförde utilizza a tal proposito il concetto di “omogeneità relativa”): essi non possono essere dei soggetti “estranei” gli uni agli altri. L’estraneità è l’opposto della solidarietà democratica. La prova a contrario viene oggi fornita – e prendo qui in prestito le parole dello stesso Zolo – dagli estesi fenomeni di insofferenza e di razzismo che colpiscono le società “multiculturali” e che la mediazione formale del diritto non riesce né a prevenire né a reprimere.

Insomma, se manca un sostrato oggettivo, se manca il “radicamento in una forma di vita” le comunità politiche non hanno alcuna possibilità di costituirsi e di rimanere vitali (M. Luciani, Articolo 12, Carocci, 2018).

Diversamente dall’universalismo liberale, l’universalismo democratico è radicato in e si riferisce a uno specifico demos costituito da persone che sono unite da qualcosa di più dell’umanità e della ragione. La solidarietà civica è radicata nelle identità collettive particolari (che non hanno certo un fondamento essenzialista o assoluto, perché appartengono alla dimensione storico-culturale che come tale ha natura transeunte e relativa); la solidarietà cosmopolitica si sostiene unicamente in virtù dell’universalismo morale dei diritti umani. Questo implica il riconoscimento che la cittadinanza democratica è una politica di identità che non può essere così astratta e senza fondamenti come lo è l’appartenenza all’umanità. D’altro canto, tuttavia, la cittadinanza democratica – come ha ben spiegato Nadia Urbinati in un suo lavoro del 2004 (Ai confini della democrazia, Donzelli) – è una identità politica che educa i cittadini a vedere gli altri come uguali, e questo è ciò che rende la politica democratica un giuoco aperto all’auto-revisione e, soprattutto, le questioni relative ai confini dello Stato questioni sempre soggette ad aggiustamenti, nel tentativo di rendere il controllo sull’immigrazione il più possibile coerente con i principi di umanità e giustizia e le politiche di integrazione degli immigrati il più possibile coerenti con i principi democratici di eguale libertà.

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