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Lavoro digitale

di Dario Guarascio

La diffusione di attività produttive1 e lavori organizzati e mediati tramite dispositivi digitali ‘intelligenti’ viene da più parti identificata come una ‘rivoluzione’. Da un punto di vista strettamente tecnologico, tuttavia, la digitalizzazione e l’uso dell’Intelligenza Artificiale nella produzione, nel consumo e nelle relazioni lavorative non può definirsi una rivoluzione quanto piuttosto un approfondimento di due tendenze in corso da quasi un trentennio: i) l’imporsi dell’ICT quale paradigma tecnologico dominante ii) l’abbattimento delle barriere spazio temporali in un crescente numero di domini socio-economici. Tecnicamente, dunque, non siamo di fronte ad una rivoluzione tecnologica. Siamo però di fronte al diffondersi di un modello di business caratterizzato da radicale innovatività. Un’innovatività che coincide con la capacità che le imprese digitali hanno – si prendano, a mo’ di esempio, le più note piattaforme digitali quali Google, Amazon o Uber – di creare, plasmare e monitorare mercati (reti) rendendo i limiti spazio-temporali che han sin qui delimitato (e implicitamente disciplinato) le relazioni socio-economiche sempre meno rilevanti.

Su cosa si fonda questo nuovo modello di business? Sulla capacità che le imprese digitali hanno di estrarre, archiviare, controllare e manipolare le informazioni (digitalizzate) concernenti i nodi (utenti, consumatori, lavoratori, fornitori, istituzioni) che popolano le reti – reti che potremmo definire ‘mercati allargati’ o ecosistemi – che le stesse imprese dominano.

Dentro la rete, l’identità sociale dei nodi diviene rarefatta, intercambiabile e, in alcuni casi, indistinguibile. Ciò pone in questione categorizzazioni economiche, sociologiche e giuridiche che hanno sino ad oggi rappresentato lo strumento di chiave per comprendere (e mitigare) la complessità e la contraddittorietà intrinseca delle relazioni capitalistiche, in particolar modo per ciò che attiene ai rapporti tra capitale e lavoro. Le potenziali conseguenze e le sfide che tutto questo pone alle società contemporanee sono evidenti. Il primo elemento riguarda il potere di mercato che stanno acquisendo le imprese più rapide nell’adottare il nuovo modello di business e gli effetti che tale concentrazione di potere potrebbe avere sulla struttura dei mercati, il conflitto capitale-lavoro e la capacità delle istituzioni di intervenire a fini redistributivi ed a tutela della concorrenza. Il secondo concerne la rinnovata capacità delle machine di sostituire esseri umani nello svolgimento di mansioni sin ora esclusivo appannaggio di questi ultimi, con le relative implicazioni in termini di disoccupazione tecnologica. Il terzo elemento ha a che fare con l’impatto sulla distribuzione del reddito che un potenziale aumento della disoccupazione tecnologica nonché un indebolimento del potere contrattuale del lavoro ed una sua acuita frammentazione potrebbero determinare. A questo elemento si aggiunge l’effetto che digitalizzazione ed automazione potrebbero avere sul processo di accumulazione di esperienze, conoscenze e competenze autonome da parte dei lavoratori.

Il lavoro ai tempi della digitalizzazione. Per ciò che concerne gli effetti occupazionali del cambiamento tecnologico in atto, un tema rilevante è quello dell’uso di macchine dotate di algoritmi di apprendimento capaci di ‘imparare dai loro sbagli’ raffinando dinamicamente la loro capacità d’agire. Il materializzarsi di macchine di questo tipo in grado di svolgere mansioni complesse sin qui svolte dagli umani può rendere ridondanti i lavoratori impiegati in tali mansioni. Guardando ai dati, si riscontra come tra il 2011 e il 2016 la vendita dei robot deputati a questo scopo è cresciuta in media del 12% all’anno, come mai in precedenza. Se il tasso di crescita rimanesse questo il numero di robot impiegati triplicherebbe ogni 10 anni. L’impatto occupazionale ‘netto’ di questo processo è difficilmente prevedibile, tuttavia. Segno e dimensioni di tale impatto dipenderanno in larga parte da quanto la persistenza (e possibilmente la crescita) di occupazioni ‘strettamente umane’ – occupazioni fondate su un elevato grado di creatività, empatia e intelligenza emotiva – compenserà la distruzione di occupazioni caratterizzate da mansioni routinarie e ripetitive. Inoltre, gli effetti occupazionali e distributivi del cambiamento tecnologico in corso saranno il frutto dell’interazione tra fattori di offerta (disponibilità e caratteristiche delle tecnologie, da un lato, delle mansioni e delle competenze dall’altro), di domanda e strutturali (posizionamento delle diverse economie nelle catene del valore globali e loro dinamica di crescita) in virtù dei quali aree economiche diverse potranno sperimentare effetti altrettanto differenziati.

La digitalizzazione dei processi produttivi rappresenta, infine, un approfondimento del processo di frammentazione delle relazioni lavorative. Le piattaforme digitali hanno la capacità di eterodirigere e coordinare lo svolgimento delle mansioni lavorative a prescindere dalla localizzazione dei soggetti e degli oggetti coinvolti nel processo. Inoltre, le stesse piattaforme hanno la capacità di mantenere vive e quindi attivabili (ma anche disattivabili) le connessioni con i nodi-lavoratori senza soluzione di continuità. In aggiunta a ciò, la possibilità di ‘digitalizzare’ frammenti infinitesimali dei processi di lavoro consente una sensibile parcellizzazione delle mansioni. Ciò può avere rilevanti effetti anche sulle competenze e sul processo di accumulazione delle stesse. La parcellizzazione delle mansioni può sottrarre a chi compie una specifica operazione lavorativa la capacità di acquisire adeguata consapevolezza della finalità ultima della medesima operazione. L’agente, in questo modo, può perdere la capacità di percepire il contributo della singola operazione all’interno dell’intero processo riducendo, in questo modo, anche le sue possibilità di cogliere la razionalità tecnologica e produttiva dell’operazione svolta. In altri termini, l’agente immerso in un ambiente produttivo digitalizzato e altamente parcellizzato sviluppa una forma di cecità circa il senso e le finalità delle proprie azioni riducendo drasticamente la propria capacità di sviluppare competenze autonome. L’accumulazione di quest’ultime, infatti, è strettamente connessa alla consapevolezza dell’agente circa le caratteristiche tecnologiche dell’ambiente in cui opera.

Se questo è il quadro entro cui ci ritroviamo ad operare, è assolutamente necessaria una riflessione circa le modalità e gli assetti istituzionali che possano garantire un transizione tecnologica socialmente sostenibile, in particolare per ciò che concerne la tutela del lavoro. Dato il ruolo chiave dei dati nel consentire l’esercizio del modello di business che va consolidandosi come dominante, quello delle piattaforme digitali, suddetta riflessione dovrebbe in primo luogo riguardare i diritti di proprietà sulle informazioni e sulle tecnologie che consentono la loro cattura ed elaborazione.


Note
1 Questo articolo si basa su precedenti contributi dell’autore sugli stessi temi: Digitalizzazione, automazione e futuro del lavoro. Guarascio, D. e Sacchi S. (2017) INAPP Research paper series; Questa volta è diverso? Lavoro umano, intelligenza artificiale e istituzioni economiche. Guarascio, D. e Franzini, M. (2018). Articolo presentato al 2° Convegno della Società Italiana di Sociologia Economica, Università Cattolica del Sacro Cuore.

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