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dinamopress

Dalla parte della storia

di Pietro Bianchi

La giovinezza di Marx ed Engels, raccontata in un film solo all’apparenza biografico, ma che si concentra sulla congiuntura per mostrare il punto singolare dell’emergenza di una storia, individuale e collettiva

Bruxelles, 1848, ovvero il momento in cui Karl Marx e Friedrich Engels scrivono il manifesto del Partito Comunista. È così che finisce Il giovane Karl Marx di Raoul Peck: un biopic atipico, sentimentale, fatto da un regista haitiano tra i più intelligentemente politici degli ultimi anni e che riprende giusto una manciata di anni nella vita di Marx durante gli anni Quaranta dell’Ottocento fino appunto alla redazione del più famoso manifesto programmatico della storia moderna.

Fare un film su una figura così ingombrante come Marx è un progetto che metterebbe paura a chiunque (Ėjzenštejn, per dire, non c’era riuscito) eppure Raoul Peck riesce a passare dalla porta stretta che vi è tra la fedeltà alla ricostruzione storica (il racconto è molto più meticoloso, anche nei dettagli secondari, di quanto ci si potrebbe attendere da una produzione del genere) e un racconto di estrema semplicità e efficacia su un giovane intellettuale e militante che attraversa uno dei momenti cruciali della storia europea.

L’idea è proprio quella di togliere a Marx quelle sembianze da icona che ci sono state tramandate dalla celebre fotografia con la barba lunga e di ricollocarlo invece nella contingenza della storia. Ecco che allora Marx e Engels – il centro del film è la storia della loro amicizia – sono due giovani bohémiens che passano da Parigi a Londra, da Bruxelles alla Germania per organizzare e conoscere quel proletariato che per la prima volta si era affacciato in quegli anni sulla scena della storia e stava cambiando definitivamente la realtà che si aveva di fronte agli occhi. Ma nel film non ci sono solo le fabbriche di Manchester o le assemblee della Lega dei Giusti, i dibattiti con Proudhon e quelli con Wilhelm Weitling: ci sono anche i bar frequentati dagli operai tra risse e fiumi di alcol, le burrascose relazioni sentimentali e le improvvise colluttazioni con le autorità di giustizia.

Perché come è stato scritto da Lorenzo Rossi su Cineforum il rischio di un film che vuole rappresentare dei personaggi tanto rilevanti dal punto di vista storico è quello di pensare che abbiano avuto una sorta di incontro inevitabile con il proprio destino. È il tipico inganno di vedere le cose après-coup, a partire dai loro effetti: ed ecco che allora l’impressione che abbiamo è che quello che è accaduto non poteva non accadere. Se noi però portiamo il nostro sguardo sul presente della scelta – come avviene in questo film – le cose acquistano un aspetto molto diverso, perché tutto “sarebbe potuto essere diverso da quello che poi è stato”. Vedere allora Marx seduto a un tavolo che scrive “un fantasma si aggira per l’Europa” ha l’effetto non tanto celebrativo di illustrare un momento che poi si rivelerà storico, quanto quello di far vedere che la storia si costruisce sempre a partire da una radicale contingenza. Insomma, le cose sarebbero anche potute andare diversamente e in ogni singolo momento la scelta si è sempre compiuta sullo sfondo di una sospensione radicale di ogni garanzia o necessità. Ecco che allora lo sguardo che Peck ci spinge ad adottare non è quello di chi ha costruito la storia perché “non poteva che andare così”, ma di chi è stato in grado di farlo solo perché vi era immerso completamente.

È per questo che Il giovane Karl Marx è un film tanto riuscito, nonostante la difficile restituzione della ricchezza del dibattito filosofico di quegli anni (che rimane quasi sempre sullo sfondo), nonostante il “vero” Marx – quello che ha davvero innovato la modernità con un’analisi inedita nel metodo e nel merito del modo di produzione capitalistico – inizi soltanto dopo il 1848, quando cioè il film finisce. Nel film quello che emerge è molto più semplicemente il fatto che Marx e Engels volessero qualcosa che andasse oltre a una prospettiva blandamente egualitaria di fratellanza tra gli uomini, come veniva espressa ne La lega dei Giusti (organizzazione socialista-utopista di cui il film ricostruisce splendidamente il momento del Congresso del giugno 1847 in cui cambia il nome in Lega dei Comunisti) e che il comunismo dovesse porre il problema di un soggetto sociale che per la prima volta mostrava nella storia i paradossi e i limiti dell’egualitarismo borghese: il proletariato.

Alla fine, quando la lettura di alcuni passi de Il Manifesto del Partito Comunista si sovrappone a dei tableau vivant di proletari del 1848 che guardano in macchina, il film termina con uno splendido cartello che dice quella che è forse la verità più decisiva del film: Marx dopo il 1848 inizia a lavorare alla sua opera più importante, Il Capitale, che rimarrà incompiuta, proprio perché l’oggetto di cui si occupa è costantemente in movimento nella storia.

L’opera di Marx insomma non è una dottrina, ma un’opera aperta, e ciò che Il giovane Karl Marx ci spinge a fare è di non ridurre la vita Marx a un’agiografia ma di essere fedeli allo spirito della sua vita: cioè, pensare quell’oggetto storico che chiamiamo capitalismo non con la freddezza e il distacco del ricercatore, ma con la partecipazione di qualcuno che sa che di quella storia è inevitabilmente parte.

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