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lavocedellelotte

L’impotenza e i rischi dell’Effective Altruism

di Matteo Iammarrone

Mi sono imbattuto nella lettura di un saggio divulgativo, prestatomi da alcuni studenti del Dipartimento di Filosofia qui a Stoccolma, chiamato Effective Altruism and a radical new way to make a difference. Mi approccio con interesse al libro, converso con alcuni di questi studenti e cerco informazioni su internet in italiano e in inglese, scoprendo che l’Effective Altruism (orrendamente tradotto in italiano con “Altruismo efficace”) è un vero e proprio movimento filosofico con fini sociali. In parole semplici, gli altruisti effettivi (tra i più noti il filosofo Peter Singer), riflettono su come fare donazioni a scopo benefico affidandosi a valutazioni razionali nella valutazione dei destinatari dei fondi e nella scelta delle priorità delle aree di intervento (foreste amazzoniche, sofferenza animale, vaccinazioni in Africa, etc…). Esistono vere e proprie classifiche stilate dagli altruisti efficaci che valutano l’efficienza di organizzazioni caritatevoli operanti in uno stesso settore, sulla base di ricerche ed evidenza empirica (mettendo in relazione costi delle campagne, impatto sulla vita delle persone o sull’ambiente dei programmi, etc…). Inoltrandomi nell’argomento tuttavia, e devo confessare sin dal primo capitolo, sento puzza di cose che non mi piacciono, magistralmente impacchettate col brand “millennial” e piccolo borghese di sentirsi generosi e bravi cittadini, standosene comodamente seduti davanti al proprio pc (“Guadagnare per donare” è, non a caso, uno dei motti dell’effective altruism).

Questa filosofia proclama la necessità di dare il proprio contributo per aiutare gli altri, e di usare come mezzo per questo fine l’evidenza empirica, senza mai, e dico mai, abbandonare la logica caritatevole (in un certo senso di matrice cristiana) del povero destinato a rimanere povero e del ricco destinato a conservare i suoi privilegi. Gli eroi, gli “altruisti di successo” di questa linea di pensiero sono i magnati milionari che, non importa come si siano arricchiti o quanti lavoratori sfruttino, quello che conta è che donino parte del loro reddito (possibilmente il 10%) a una giusta causa, la cui efficacia è definita dalla scienza, dai numeri, dall’evidenza empirica. Ovviamente non è necessario essere milionari per essere dei buoni altruisti efficaci. Prendiamo per esempio l’impatto ambientale dei sistemi di riscaldamento o del consumo di acqua nelle nostre case. Nel libro mediante alcuni calcoli viene dimostrato che invece di preoccuparsi di risparmiare l’acqua corrente o di spegnere le luci quando si esce da una stanza, è più efficace per l’ambiente donare a una certa organizzazione che contribuisce al salvataggio delle foreste amazzoniche. Per cui, come esplicitamente ammette l’autore, possiamo continuare a sprecare acqua ed elettricità, e compensare con una donazione ad un certo ente caritatevole. Rimani a casa. Attenua i sensi di colpa con un click. Lascia le cose così come sono. Conserva il tuo stile di vita. Questi i veri messaggi subliminali del libro.

Come se non bastasse, l’immagine su cui tutto questo discorso si fonda (ed è una rappresentazione esplicitamente marcata nel libro) è quella di “noi” ricchi, privilegiati abitanti del Nord del mondo e “loro” poveri sfigati abitanti del Sud del mondo incapaci di provvedere a se stessi. Questa rappresentazione è una estrema semplificazione che ignora la stratificazione di classe, descrive i Paesi come “blocchi uniformi” e dipinge il nostro “Nord del mondo” come il migliore dei mondi possibili (tutto ciò fa riflettere sul tipo di lettori a cui il libro stesso è probabilmente destinato!).

Uno dei punti morti in cui questo ragionamento si imbatte, e forse il più interessante capitolo del libro intero, è quello dedicato alle Sweatshops nei Paesi in via di sviluppo. Le sweatshops sono fabbriche nei Paesi poveri, tipicamente in Asia o Sud America, che producono beni come prodotti tessili, giocattoli o prodotti di elettronica per i Paesi ricchi sotto condizioni di lavoro orripilanti (lavoratori costretti a lavorare sedici ore al giorno, sei o sette giorni a settimana. Assenza di misure di salute e sicurezza etc…). L’autore si chiede se, sulla base dei suoi calcoli empirici, abbia senso boicottare i prodotti derivati da queste industrie. La sua risposta è negativa: studi dimostrano che se queste orribili fabbriche chiudessero molti lavoratori finirebbero nel lavoro nero, nella criminalità o nei giri di prostituzione (dunque tendenzialmente scivolerebbero verso condizioni peggiori rispetto a quelle delle sweatshops). Per questa ragione, per essere altruisti e fare del bene a quelle persone (dove per “persone” intende un blocco unico, padrone e lavoratori) è giusto acquistare quei prodotti, non importa se economicamente e moralmente stiamo promuovendo le loro catene e la loro miseria quotidiana. Meglio una male minore, insomma. (quest’ultima parte, quella che acquistando i prodotti si giustificano quelle condizioni e si arricchiscono quei padroni, è ovviamente inesistente nel libro, ma è un mio contro-ragionamento). Ho portato quest’esempio più specifico perché è uno di quei momenti in cui l’altruismo effettivo è costretto ad ammettere la sua impotenza. Nessuna terza via è ovviamente contemplata. Nè quella della lotta di quei lavoratori contro quel padrone né il ruolo della politica nazionale o internazionale. Tutto è invece misurato in termini di Stati e individui, e più nello specifico, di scelte individuali di consumo. Queste ultime hanno ovviamente un peso (per diverse ragioni sono vegetariano e so che la scelta individuale di milioni di persone di rinunciare alla carne ha fatto diminuire il numero di macelli e di animali uccisi), ma so anche che per cambiare il mondo è necessario cambiare l’organizzazione sociale e economica, e che l’impatto delle scelte di consumo così come delle donazioni caritatevoli in quanto operanti nel solco di questa organizzazione sociale e economica, finiranno facilmente per finire in un impasse e scontrarsi con le sue contraddizioni.

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