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Gabriele Rapagnetta, novello Gorgia del ventesimo secolo

di Eros Barone

Il terzo grande ‘fabbro’ della lingua italiana è, dopo Dante e Manzoni, D’Annunzio. Questa verità, a ottant’anni dalla morte, va riconosciuta senza esitazione, giacché difficilmente si può sopravvalutare la vasta, anche se non profonda, influenza che ha esercitato sulla letteratura e, ancor di più, sulla lingua e sul costume italiani del Novecento, Gabriele Rapagnetta (tale era la vera identità anagrafica del vate, cui un cognome così ordinario non poteva di certo essere gradito). D’altra parte, come negare che in questa ‘fortuna’ vi sia qualcosa di paradossale ? Basti considerare che, in buona sostanza, la posizione di D’Annunzio nella letteratura italiana è quella di un tardo umanista che, ispirandosi ai classici, ha forgiato una lingua non troppo lontana dal parlare comune, ma pure abbastanza lontana da risultare senz’altro artificiale, se non artificiosa, in un’epoca caratterizzata da tendenze diametralmente opposte. Né sarà da passare sotto silenzio il fatto, ampiamente documentato, che D’Annunzio ha spesso plagiato i classici, anche se occorre tenere presente che il plagio dannunziano presuppone uno scrutinio incessante e una delibazione quanto mai raffinata dei testi che l’autore prende in carico e di cui inserisce ampi stralci nelle proprie opere.

Il gusto àulico e prezioso della forma espressiva e la ricerca della parola rara e desuèta sono dettati nel poeta pescarese da un’esigenza di musica verbale, il cui portato è un linguaggio arcaicizzante, una sorta di lingua morta, altamente ritualizzata e formalizzata, di cui egli è il grande sacerdote. Anche se l’oro della parola fa aggio sulla lega modesta, spesso pretenziosa e non di rado volgare, dei pensieri a cui offre uno scintillante invòlucro e per cui funge da veìcolo di lusso (un’ideologia eclettica, populistica, edonistica, aristocraticheggiante e imperialistica, che, anticipando e preparando l’ascesa del fascismo mussoliniano, spaccerà con successo alle masse piccolo-borghesi, schiacciate tra la pressione della grande borghesia e la spinta del proletariato, uno Zarathustra nicciano in salsa italiana), è ben difficile disconoscere il ruolo di riformatore della lingua nazionale, che D’Annunzio, del resto, ha saputo svolgere con accorta ottica bifocale, rivolta, sì, al mito delle nobili origini del nostro idioma, ma anche molto attenta alle tecniche pubblicitarie della moderna società di massa. L’apporto onomaturgico del poeta non si è limitato infatti alla creazione dell’epiteto “La Rinascente” per i grandi magazzini commerciali aperti dal senatore Borletti, ma ha spaziato in tutti i campi, compreso quello della cinematografia, a cui il poeta, scrivendo il soggetto del film “Cabiria”, ha riconosciuto lo ‘status’ di decima Musa e di cui ha intuito le grandi potenzialità.

La ricerca della parola perfetta, perseguìta con l’ausilio di una costante consultazione del dizionario Tommaseo-Bellini e del Vocabolario dell’Accademia della Crusca, è stata sempre il fine supremo che si proponeva l’artefice D’Annunzio sia nel campo letterario sia in quello politico, quale che fosse l’oggetto, effimero o duraturo, da produrre e sempre a condizione che la sua personalità potesse «effigiarsi su tutte le cose come sigillo imperiale»: dettare le “Laudi” o comporre “Il piacere”; con un coraggio che suscita rispetto e perfino ammirazione, compiere per mezzo dei velìvoli – neologismo stupendo coniato dal poeta-aviatore  la missione propagandistica su Vienna o attuare per mezzo delle motosiluranti la bèffa di Bùccari; condurre l’impresa di Fiume e istituire la Reggenza del Carnaro (la quale, tra l’altro, nel contesto magmatico e incandescente del diciannovismo fu il primo ‘Stato’ a riconoscere l’Unione dei Soviet e a stabilire con essa relazioni diplomatiche) o, ancora  ‘last but not least’ , edificare quel misto di tempio parsifalesco, di palazzo principesco, di paradiso di esteta, di alcòva per erotòmani, di mausoleo per sé e per i suoi compagni d’arme e di avventura, nonché di pacchiano padiglione di esposizione, che è il Vittoriale degli Italiani.

Senza dimenticare che D’Annunzio occupa un posto significativo anche nella letteratura francese grazie alla composizione del «Martyre de Saint Sébastien», tragedia teatrale che fornirà il libretto d’opera alla musica di Claude Debussy, leggiamo, per avvicinarci ai segreti della sua officina, ciò che scrive nel “Venturiero senza ventura” questo mirabile artiere del Verbo, adoperando la metafora dell’alièutica per rappresentare, in modo non meno abile che elegante, i processi visivi e ideativi dai quali nasce quella scrittura che fa di lui un artista senza rivali: «Il mio linguaggio mi appartiene come il più potente dei miei istinti: è un istinto carnale purificato ed esaltato dal fuoco bianco della mia intelligenza. Certi costrutti di parole mi salgono dal fondo alla superficie preceduti da un lor proprio barlume, come certe specie degli abissi marini, che lucono prima d’esser ravvisati e predati. Ben io mi ravviso in loro, ben io talvolta conosco in loro quel che in me non conoscevo, quel che di me non imaginavo, assai prima di tenerli e di configgerli vivi nella pagina.»

Un simile autoritratto letterario, psicologico e linguistico non poteva sortire se non dalla penna di chi, novello Gorgia del ventesimo secolo, non si era peritato di affermare che «infinita è la potenza della parola, che tutto può innalzare e tutto può abbassare, che tutto può creare e tutto può distruggere».

Comments

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massimo
Sunday, 22 April 2018 15:23
ma lei, signor barone, quanti anni ha?
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