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Economia della rivoluzione

di Marco Paciotti

Vladimir Ilic Lenin: Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp.521, ISBN 9788842823605

Curato e introdotto da Vladimiro Giacché, questo volume è un importante contributo allo studio e all’analisi di quel primo rilevante «processo di apprendimento» (Losurdo) del movimento comunista che è stata la costruzione della repubblica dei soviet, seguita all’esplosione rivoluzionaria dell’ottobre 1917. Vengono raccolti 67 testi economici del dirigente e rivoluzionario bolscevico, chiamato a governare l’immenso Stato russo in una situazione di profonda arretratezza dovuta ai rapporti sociali semifeudali dominanti e aggravata da anni di guerra imperialista. I tre capitoli del libro raggruppano gli scritti dedicati rispettivamente alla fase iniziale della costruzione socialista, al «comunismo di guerra» e alla Nuova politica economica.

La prima parte, che inizia con l’appello Ai cittadini di Russia, con il quale il nuovo governo annunciava la fine del potere zarista, passa in rassegna i provvedimenti economici immediatamente successivi alla conquista del potere, come i decreti sulla pace e sulla terra, sul controllo operaio della produzione industriale, sulla nazionalizzazione delle banche.

Da subito emerge come Leitmotiv la necessità di realizzare una superiore organizzazione del lavoro, in grado di far uscire la Russia dallo stato di arretratezza ereditato dal precedente regime, per poter fronteggiare l’attacco controrivoluzionario.

Una delle principali difficoltà veniva individuata da Lenin nella mancanza di esperienza gestionale da parte delle classi subalterne, le quali, pur iniziando da subito il proprio “tirocinio” assumendo le più alte responsabilità nella grande industria nazionalizzata, non potevano accumulare in tempi brevi le competenze necessarie. Per ovviare alle esigenze organizzative più immediate nei settori strategici della produzione, Lenin ritenne necessario attrarre il più possibile i vecchi specialisti della borghesia, permettendo loro di condurre il lavoro organizzativo delle fabbriche a retribuzioni elevate, per un periodo transitorio e ferme restando una serie di controlli collettivi. Come obiettivo a lungo termine il leader comunista proponeva invece di dare slancio alla produzione industriale sulla scia dei più grandi avanzamenti in campo organizzativo conseguiti dalla borghesia capitalista: da qui la sua approfondita riflessione sul taylorismo, sistema concepito nei paesi a capitalismo avanzato per aumentare i profitti a danno della qualità della vita dei lavoratori nelle fabbriche ma che, posto sotto il controllo dei soviet, avrebbe potuto essere messo al servizio di uno sviluppo massiccio delle forze produttive che rafforzasse le basi materiali della costruzione del socialismo, rendendo possibile anche una diminuzione della giornata lavorativa.

Queste parole d’ordine incontrarono l’opposizione dei settori del partito vicini alle posizioni di sinistra (Bucharin, Preobraženskij, Kollontaj); settori che, a differenza di Lenin, erano ben lungi dal concepire la Aufhebung rivoluzionaria in termini dialettici e proponevano un’idea del processo di costruzione del socialismo fondata spesso sulla negazione indeterminata delle condizioni materiali date, nel nome di una presunta applicazione pura del marxismo.

La dinamica conflittuale all’interno del partito bolscevico toccò l’apice nelle discussioni sul proseguimento delle ostilità militari contro l’Impero tedesco. Il rifiuto delle condizioni umilianti imposte dalla Germania per l’armistizio e la conseguente prosecuzione della guerra, contro la volontà dello stesso Lenin, condusse la repubblica dei soviet a uno scontro asimmetrico sul piano dei rapporti di forza. La disfatta militare costrinse i negoziatori sovietici ad accettare condizioni estremamente più onerose di quelle precedentemente rifiutate; condizioni che finirono in seguito per aggravare a loro volta la situazione economica. Il successivo inasprimento delle difficoltà dovuto all’inizio della guerra civile scatenata dalle forze controrivoluzionarie costrinse la dirigenza bolscevica ad adattare le proprie strategie economiche all’esigenza incombente di sconfiggere il più rapidamente possibile le truppe nemiche.

Fu in questo contesto di estrema difficoltà che ebbe vita la seconda fase della politica economica sovietica: il «comunismo di guerra». Nei suoi caratteri generali, questa strategia fu dettata dalla crisi alimentare che aveva colpito il paese e che era stata causata in gran parte dalla speculazione e dal mercato nero attuati dai contadini ricchi – i kulaki – ma che allo stesso tempo aveva rivelato una debolezza sostanziale del sistema di commercio post- rivoluzionario. Un sistema basato sullo scambio in natura, ovvero sullo scambio diretto di prodotti agricoli con prodotti industriali, determinato dalla carenza di quest’ultimi e dai conseguenti prezzi elevati.

Si decise quindi di passare a una politica di requisizioni delle eccedenze agricole ma senza risolvere il problema dell’approvvigionamento di beni alimentari, perché i contadini iniziarono a produrre solo quanto necessario alla propria sussistenza, fermandosi al tetto di produzione oltre il quale le eccedenze sarebbero state prelevate dal governo. Se da un lato la situazione dell’economia agricola non manifestò miglioramenti, dall’altro diveniva sempre più stringente la necessità di porre inizio a una vera ricostruzione economica. Non può essere sottovalutata, poi, la situazione internazionale. Sebbene sul fronte della guerra civile già nel 1920 l’Armata Rossa ottenesse i primi successi contro le forze anti-comuniste, sembrava infatti allontanarsi sempre più la prospettiva di un allargamento della rivoluzione ai paesi più avanzati dell’Europa occidentale – si pensi in primis alla tragica conclusione della rivoluzione spartachista in Germania –, ritenuta essenziale per facilitare il consolidamento del processo rivoluzionario nella stessa Russia.

Per queste ragioni Lenin avrebbe dedicato sempre maggiore attenzione allo sviluppo al massimo grado delle forze produttive, puntando sulla modernizzazione del paese favorita dalla costruzione di una rete elettrica su tutto il territorio nazionale. Venne adottata anche una politica di concessioni all’imprenditoria capitalistica, al fine di attirare i capitali necessari alla modernizzazione infrastrutturale della Russia.

Man mano che il processo di costruzione del socialismo avanzava, si manifestava in maniera sempre più evidente una tensione permanente tra le condizioni concrete attraverso cui doveva districarsi la direzione cosciente del mutamento sociale e quelle improbabili prospettive messianiche – come la pretesa di una magica sparizione del denaro e dello scambio commerciale – che appesantivano il patrimonio ideologico dei rivoluzionari. I testi raccolti da Giacché evidenziano il tentativo costante di Lenin di mediare queste prospettive teoriche a lungo termine con la situazione oggettiva e di vivificare e concretizzare la teoria rivoluzionaria di Marx ed Engels nella sua applicazione dialettica alla praxis politica, sulla base delle condizioni materiali di fatto.

Questo «processo di apprendimento» che passa attraverso le contraddizioni del reale sfocia infine nell’elaborazione della Nuova politica economica, le cui misure principali sono l’imposta in natura, che sostituiva l’inefficace prelievo delle eccedenze; il ripristino di una certa libertà di commercio, giudicata da Lenin come necessaria a far ripartire la produzione agricola e industriale; lo sviluppo delle cooperative agricole. Viene delineata così la transizione verso un sistema economico a «capitalismo di Stato», una prospettiva che, pur non facendo parte dell’orizzonte ideale dei comunisti, avrebbe costituito secondo Lenin un sostanziale progresso rispetto alla piccola produzione dispersa ma anche nonché un passaggio intermedio fondamentale nella marcia verso il socialismo; un passaggio resosi necessario per via del mancato avvento della rivoluzione nel resto d’Europa. Il carattere progressivo del «capitalismo di Stato» sarebbe stato comunque garantito dal ruolo pianificatore dello Stato dei soviet, espressione dei mutati rapporti di forza tra le classi in seguito alla rivoluzione.

Economia della rivoluzione raccoglie anche testi relativi a una molteplicità di problemi strutturali dell’economia sovietica in transizione, problemi che avrebbero condizionato anche gli sviluppi successivi alla morte del leader bolscevico: dall’alleanza tra contadini e gli operai – elemento estremamente frequente nell’analisi leniniana e centrale, non a caso, anche nella riflessione gramsciana – agli strumenti necessari al perfezionamento della capacità produttiva, come l’inventario della produzione, il controllo operaio, l’emulazione finalizzata alla formazione di quadri dirigenti provenienti dalla classe operaia; dalla funzione del commercio a quella della moneta; dalla lotta ideologica contro l’«infantilismo di sinistra» alla lotta politica contro il burocratismo; dall’importanza di ricorrere all’incentivo dell’interesse personale per fornire slancio all’iniziativa dei lavoratori alla funzione dei sindacati come cinghia di trasmissione delle istanze delle masse verso il partito, tante volte richiamata e altrettante volte malintesa nel dibattito politico italiano.

La raccolta curata da Giacché non si limita ad alimentare la pur necessaria discussione sul processo storico avviato dalla rivoluzione russa, fornendo un contributo che finalmente si sottrae alle distorsioni e alle semplificazioni manichee oggi dominanti. Essa ha anche il merito di proporre una chiave interpretativa applicabile alla realtà economico-politica attuale, che vede contrapporsi alla profonda crisi delle economie occidentali (sempre più impantanate nelle catastrofiche conseguenze sociali delle politiche liberiste di deregulation economico-finanziaria) un progetto alternativo di società come quello della Repubblica popolare cinese: una realtà socio-economica in costante ascesa che è figlia di una «sconcertante» formula che sulla scia dell’insegnamento di Lenin riesce a combinare, appunto, economia di mercato e pianificazione strategica statale.

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