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Salvini-Di Maio, due “tsipras” di destra

di Dante Barontini

Se nessuno si straccia le vesti – nell’establishment italico o a Bruxelles, e neanche sui mercati finanziari – per la formazione di un governo “populista-sovranista”, qualche motivo ci deve essere. Fino al 4 marzo l’ipotesi di un esecutivo addirittura formato da pentastellati e leghisti (gente che a Strasburgo aveva fatto gruppo comune con Nigel Farage o Marine Le Pen) evocava gli spettri del crollo di fiducia internazionale nell’Italia, con conseguente decollo verticale dello spread, fuga dei capitali, minacce da parte della Troika, ecc. Ora nulla, calma quasi piatta, curiosità “etnologica”, ma nessuna preoccupazione seria.

Cos’è accaduto?

A noi sembra evidente che il punto decisivo non sia stato affatto il “passo di lato” di Berlusconi. O meglio, ci sembra che quel passo sia stata la conseguenza di un livello di assicurazioni fortissimo verso i poteri sovranazionali cui l’ex Caimano aveva giurato nuova fedeltà, stringendo un forte accordo con Angela Merkel. Come se qualcuno avesse deciso – lassù – che ora ci si poteva fidare di quella strana coppia, così simile al repertorio degli stereotipi (il settentrionale ganassa e volgare, il meridionale tutto chiacchiere compite che dicono tutto e il contrario di tutto, a seconda dell’interlocutore).

Non è una nostra illazione. Il pressing esercitato da Sergio Mattarella contro la “narrazione sovranista”, dopo aver minacciato un governo “neutrale” composto da funzionari-guardiani dei trattati internazionali, è fin qui stato sufficiente a far rientrare ogni velleità di realizzazione dei “programmi” presentati da M5S e Lega. Tanto da far dire al Corriere della Sera

“Il nuovo governo dovrà fondarsi su precise garanzie internazionali. Europa, euro, patto atlantico: il Quirinale vuole queste certezze. L’esecutivo M5S-Lega dovrà fornirle a partire dai nomi e dalle caselle ministeriali più rilevanti.”

Non è un volantino di Eurostop scritto al contrario, dove i “tre sì” pretesi dal Quirinale diventano i “tre no” di una piattaforma di rottura, ma un editoriale del principale quotidiano dell’establishment italico (l’ex “salotto buono della borghesia”).

Difficile essere più chiari sul piano dello schieramento internazionale e della fedeltà ai trattati sottoscritti. Difficile anche equivocare sui “nomi di garanzia”, visto che quello fatto circolare come prossimo presidente del consiglio – per evitare che alla strana coppia possa venire comunque in testa qualche idea balzana – è addirittura quello di Giampiero Massolo.

Ai più questo nome non dice nulla, come si conviene ad un personaggio che ha ricoperto incarichi di potere delicatissimi, per definizione “nell’ombra”: ambasciatore, capo della segreteria particolare del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (1994), funzionario apicale del ministero degli esteri, capo del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’organo di coordinamento dei due servizi segreti, Aise e Aisi), presidente di Fincantieri e dal 2017 presidente dell’Ispi, Istituto di politica internazionale, considerato espressione “colta e presentabile” della Nato.

Pensare di affidare la presidenza del consiglio all’ex coordinatore dei servizi segreti dà la misura della “stretta militare” che si è messa in moto per confinare, controllare, plasmare un governo formalmente “politico”, formato dai due movimenti che hanno raccolto tutti i sentimenti “anti-politici” della disorientata popolazione italiana: euroscetticismo, culto astratto della legalità, populismo malpancista, razzismo come forma della “guerra tra poveri” stimolata dall’alto, ecc.

Rassicurazioni internazionali a parte, qualcosa già si vede dalla nota congiunta che la strana coppia ha diramato sui “progressi” della trattativa sul “programma” di governo che si accingono a presentare a un severissimo Mattarella (e di lì alla Commissione Europea). Leggiamo:

«Superamento della legge Fornero, sburocratizzazione e riduzione di leggi e regolamenti, reddito di cittadinanza, misure per il recupero fiscale in favore dei contribuenti in difficoltà, studio sui minibot, flat tax, riduzione costi della politica, lotta alla corruzione, contrasto alla immigrazione clandestina, legittima difesa».

Non sfugge a nessuno che “superamento” non equivale a “cancellazione”. In tedesco (aufhebung, conservare trasformando) sarebbe ancora più chiaro. E così per il “reddito di cittadinanza” che gli stessi grillini si affrettano a definire meglio: una misura «non assistenziale» ma legata al lavoro e che in ogni caso avrebbe un orizzonte temporale lungo e potrebbe arrivare solo nel 2019. Poca roba, vincolata e per poco tempo, insomma. Idem per la flat tax leghista, che già si trasforma in una “doppia aliquota e quattro scaglioni”. Idem per il mantra pentastellato sul “conflitto di interessi”, che figura orami solo nelle dichiarazioni grilline, ma non appare né nella nota congiunta né – tantomeno – nelle parole dei leghisti.

Ma è sostanzialmente inutile, al momento, fare le pulci alle “promesse tradite” dalla strana coppia. Siamo in un momento in cui punti e temi appaiono e scompaiono su fogli di carta volanti, a loro volta bloccati e sbianchettati dai “supervisori” all’uscita dalla stanza in cui “i vincitori delle elezioni” fingono di avere il pieno controllo della situazione.

Quel che c’è da capire è relativamente più semplice e più drammatico: è saltato il sistema della rappresentanza politica della Seconda Repubblica, che vedeva la direzione sovranazionale del paese affidato a due forze principali incaricate di tradurre le indicazioni e i trattati in “riforme strutturali” (pensioni, mercato del lavoro, spesa sociale, privatizzazioni e liberalizzazioni, ecc), trovando e costruendo il consenso sociale necessario. Quel sistema aveva due forze-pilastro – il centrodestra controllato da Berlusconi e il Partito Democratico – anche se con gradi diversi di affidabilità per l’Unione Europea (solo il Pd era pienamente rispettoso di tempi e formule, mentre a destra sopravvivevano ampie zone di “capitalismo pre-moderno”, tra lo straccione e il malavitoso).

Quel sistema di rappresentanza è esploso il 4 marzo per l’impossibilità di garantire in eterno un consenso sociale a politiche di austerità sempre più dure, che hanno progressivamente distrutto il sistema di welfare e diritti sui cui il consenso si era sempre fondato.

Le due forze principali emerse da questa crisi della sfera politica – e perciò considerate campioni dell’anti-politica – si sono venute a trovare nella stessa posizione di Alexis Tsipras dopo il referendum greco che ha visto vincere il “no” (Oxi) alle imposizioni della Troika.

Anche Tsipras, infatti, aveva conquistato una maggioranza relativa nel paese criticando l’austerità, la corruzione e la svendita del patrimonio del paese, promettendo all’opposto politiche sociali favorevoli alle classi più deboli.

Come Tsipras, Di Maio e Salvini dovranno fare gli esecutori testamentari di se stessi e realizzare il contrario di quanto promesso. A Bruxelles non importa affatto se sei arrivato a questo punto venendo da sinistra o da destra, o dall’”altrove” pentastellato. Importa solo che il gatto acchiappi il topo. Ovvero che un governo nazionale esegua quel che viene deciso “lassù”.

Appare evidente, in questo quadro, che ci sarà un’opposizione finta (formazioni che criticheranno le mosse del futuro governo chiedendo “più Europa”).

Appare altrettanto evidente che serve invece un’opposizione vera, fondata sugli interessi sociali che saranno ancora una volta sotto attacco: pensioni, scuola, sanità, reddito, casa, diseguaglianze, ecc.

Ma avere un programma sociale e capacità di mobilitazione – per quanto difficile sia oggi vincere l’astenia sociale indotta da 30 anni di neoliberismo – non basta più. Bisogna avere ed articolare una visione d’insieme che indichi la possibile via d’uscita da una gabbia che mai come oggi appare solida, ferrea, militarizzata.

Una visione che non può più essere rappresentata da vaghi propositi di “riforma” della tecnostruttura che ci governa. Su questa linea, ormai è palese, si sono infranti prima Tsipras e oggi di stanno per schiantare anche i Di Maio e i Salvini, sia pure con una diversa retorica alle spalle.

Non è una stagione per riformisti, questa. Se si vuole avere una chance di cambiamento sociale, vero, radicale, internazionalista e popolare, bisogna porsi l’obiettivo dell’uscita dai trattati. Ossia rompere l’Unione Europea.

In mezza Europa si comincia a capire che l’Unione Europea è il problema, non la soluzione. Lo si può capire anche in Italia, no?

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