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Scienza e militanza. Un ricordo di Domenico Losurdo

di Angelo d’Orsi

Il destino è sovente beffardo, oltre che crudele. Quando mi giunge la notizia, peraltro attesa, della scomparsa di Domenico Losurdo (nato nel 1941, a Sannicandro, in Puglia), mi è venuto alla mente Antonio Labriola, filosofo socratico, che poco amava scrivere ed affidava il suo sapere perlopiù alla parola detta, più che a quella fermata sulla carta: Labriola morì di un cancro alla gola, che gli impedì di parlare prima di strapparlo alla vita. Losurdo, storico e filosofo, militante comunista, docente, studioso di altissimo livello, scrittore prolifico, e insomma, quel che si dice “una gran testa”, è morto di un tumore al cervello che se l’è portato via in tutta fretta, lasciandoci attoniti. Quel cervello che sembrava inarrestabile, generoso quanto rigoroso, una vera macchina da guerra, sconfitto da una stupida malattia.

Il suo attivismo quasi frenetico, sia che si trattasse di scrivere un articolo, di lavorare a una ricerca, o di tenere una conferenza, era sempre pronto. Saliva su un treno, con un piccolo bagaglio, con le sue camicie a righe, sempre senza cravatta, con abiti sempre da mezza stagione, e macinava chilometri e chilometri, per portare una sua visione del mondo in giro per l’Italia, per l’Europa, per il mondo: sono pochi i Paesi in cui Losurdo non sia stato invitato, per convegni, lezioni, o presentazioni di traduzioni dei suoi libri.

E sono stati davvero tanti, quei libri, tutti ricchi di dottrina, persino ridondanti. Un regesto, anche incompleto, risulterebbe improponibile in uno spazio come questo. Il fatto è che Domenico, Mimmo per gli amici, è stato uomo davvero dai molteplici interessi, tra filosofia e dottrine politiche, in grado di coprire, grazie ad una erudizione sterminata, campi assai vasti del sapere.

Di formazione filosofo, Losurdo aveva a differenza di buona parte dei suoi colleghi, non solo il massimo rispetto per la storia, compresa la dimensione biografica degli autori che studiava, ma ha nutrito ogni suo scritto di storicità. Era ben conscio che, per citare ancora Labriola, “le idee non cascano dal cielo”, e dietro, sotto, le idee egli cercò sempre le basi strutturali, i contesti ideologici, cercando, da autentico e ferrato storico materialista, di mettere in luce le connessioni tra economia e ideologia, tra interessi sociali e dibattiti culturali. Un marxista per convinzione, sia per gli ideali politici, sia per una precisa scelta metodologica. Era persuaso, Losurdo, che senza mettere in luce quelle connessioni, senza scavare nel backstage delle idee politiche, non si potesse averne piena cognizione.

Comunista non pentito, aveva aderito al tentativo del piccolo partito cui era iscritto, il PdCI di dare vita a un nuovo, possibilmente grande partito comunista italiano: quando alle prime prove gli esiti elettorali furono modesti e, con un po’ di malizia, glielo feci notare, egli senza scomporsi mi rispose: “Noi lavoriamo sui tempi lunghi”, reiterando l’invito ad aggregarmi. Che non raccolsi, naturalmente, né, del resto, condividevo tutti gli orientamenti di Losurdo, anche se ho recensito e presentato parecchi suoi libri, e soprattutto abbiamo condotto molte battaglie in comune, in primo luogo quelle contro la retorica sionista pronta a usare il tabù dell’antisemitismo per emarginare e condannare all’isolamento chiunque criticasse i governanti israeliani.

Discutendo alcuni suoi lavori, non ho rinunciato alle critiche, sempre mettendo in evidenza da un lato la prodigiosa capacità produttiva, e dall’altro l’originalità di molte sue analisi, mai scontate, anche se, talvolta, per chi conosceva il pensiero losurdiano, prevedibili. Aveva il chiodo fisso dell’antimperialismo, e si batteva perché la stessa categoria teorica di “imperialismo” e quella ad essa vicinissima di “colonialismo” ricuperassero piena cittadinanza nelle analisi geopolitiche. Ammiratore critico (ossia tutt’altro che becero, ma il dissenso qui tra noi era sensibile) di Stalin, come grande protagonista della lotta mondiale al nazifascismo, negli ultimi anni si era molto occupato della Cina, diventandone un esperto, sul piano dell’analisi ideologica. Ma rimase fino alla fine un militante, un combattente, e nei suoi interventi pubblici non abbandonava mai un certo tono comiziante, capace di tener desto l’uditorio, e di animarlo, anche se non sempre di convincerlo.

A lungo docente di Storia della filosofia nell’Ateneo di Urbino, ne era diventato poi professore emerito, e ricopriva diversi prestigiosi incarichi scientifici a livello internazionale, specie nel mondo degli studi hegeliani e marxengelsiani.

Nella vastissima bibliografia losurdiana, arbitrariamente, scelgo questi titoli: La comunità, la morte, l’Occidente (Bollati Boringhieri, 1991), forse il suo libro più affascinante; Il revisionismo storico. Problemi e miti (Laterza, 1996), caposaldo teorico della lotta antirevisionistica; Nietzsche, il ribelle aristocratico (Bollati Boringhieri, 1997), un autentico capolavoro, a dispetto della sua mole impressionante; Controstoria del liberalismo (Carocci, 2005), un affresco che svela il “lato oscuro” della pseudo-democrazia liberale; Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), un’analisi tanto più preziosa oggi davanti al “trumpismo”; La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, 2015), una lettura originale dell’eterno scontro tra oppressi e oppressori; Un mondo senza guerre (Carocci, 2016), libro che aggiunge a una sapiente analisi del mondo bellicistico una prospettiva di alternativa radicale. E l’ultimo: Il marxismo occidentale (Laterza, 2017), del quale è rilevante il sottotitolo: “Come nacque, come morì, come può rinascere”, dove si nota perfettamente la natura duplice dell’autore: studioso e militante. E la sua scomparsa, dunque, suona come un mesto messaggio per il mondo degli studi, ma anche per quello della militanza politica. Anche sotto questo aspetto, Domenico Losurdo appare una figura oggi insostituibile. Il che rende la sua perdita gravissima.

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Eros Barone
Tuesday, 03 July 2018 22:18
L'autore di questo articolo su Domenico Losurdo scrive a proposito del monumentale saggio su Nietzsche: "Un autentico capolavoro, a dispetto della sua mole impressionante". In realtà, non a dispetto ma anche in virtù della "sua mole impressionante", poiché in questo 'magnum opus' losurdiano la quantità, essendo perfettamente funzionale all'assunto, si converte in qualità. Pertanto, la prima cosa da dire sul libro in questione è che si tratta di un libro insostituibile per la sua primaria funzione di biografia intellettuale del filosofo tedesco. Con una documentazione vasta e capillare, che fa giustizia in modo definitivo degli abbellimenti e delle edulcorazioni con cui si è cercato, da parte di non pochi studiosi, di ‘addomesticare’, più omettendo che non reinterpretando, la natura prefascista e protofascista del suo pensiero, laddove Gianni Vattimo è naturalmente il principale responsabile di queste operazioni interpretative condotte all’insegna del ‘pensiero debole’, Losurdo ha ricostruito nel modo più preciso le fonti di Nietzsche e il torbido ‘background’ in cui affondano le radici del pensiero del filosofo di Röcken. E, da tale punto di vista, è palese che l’autore del “Ribelle aristocratico” concorda pienamente con l’autore della “Distruzione della ragione” nel ricondurre il bandolo della ‘trama nera’ che intesse il pensiero di Nietzsche al trauma provocato dagli eventi rivoluzionari della Comune di Parigi (1871) in tutto il mondo conservatore e reazionario di quel periodo storico.
Proseguendo in questa direzione interpretativa, Losurdo ha giustamente indicato il distacco di Nietzsche dalla originaria matrice nazionalista e antisemita attraverso l’assunzione di un europeismo incentrato sul ruolo dirigente delle élite ebraiche e modellato sul dominio imperialistico transnazionale. Altro che “inattualità” e “impoliticità” del pensiero nicciano! Il progetto di un’alleanza tra il capitale finanziario, la grande borghesia germanica e gli ‘Junker’, da lui coltivato, è la più clamorosa smentita di questo ‘topos’ della letteratura ‘acritica’ sul filosofo tedesco. Insomma, ancora una volta Losurdo, sulle orme di Gyorgy Lukàcs, documenta, argomenta e sottolinea il significato politico del pensiero nicciano e rende onore implicitamente alla classica lettura che ne ha dato il filosofo ungherese. Non può dunque destare meraviglia che il bilancio, che Losurdo ha fatto del pensiero di Nietzsche, abbia sollevato, quando la sua monografia vide la luce nel 2002, veementi opposizioni e giudizi non favorevoli fra tutti coloro che miravano a restituire a Nietzsche quell’“innocenza” che Lukàcs gli aveva negato e di cui Losurdo dimostrava l’inesistenza. Il cinico elogio dello schiavismo e l’avversione irriducibile per l’egualitarismo, che fanno di Nietzsche il precursore del nazismo hitleriano, non saranno mai riscattati dalla prosa smagliante e dallo stile affascinante con cui quei contenuti disumani e antiumani sono stati espressi. Che poi Losurdo avesse, come dice il raffinato autore di questo articolo, "il chiodo dell'imperialismo" ed esprimesse un giudizio (non "becero" ma) sostanzialmente positivo su Stalin, non può che tornare a lode di un intellettuale che, esattamente come Lukacs, ha sempre mantenuto un legame inscindibile con la tradizione marxista-leninista, cioè rivoluzionaria, del movimento proletario. Naturalmente, che le sue scelte politiche concrete abbiano corrisposto pienamente a questo legame, è tutt'altro discorso, che però non va ridotto, come fa l'opportunista D'Orsi, alla banale quantificazione elettorale degli esiti più o meno immediati di un progetto comunista.
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