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mauro poggi

DEF, dipedenze e indipendenze

di Mauro Poggi

Puntuali, ogni anno in questo periodo si ripetono le stucchevoli diatribe intorno al DEF, e come ogni anno alla fine la domanda è la stessa: chi paga?

Ieri, in uno dei tanti salottini del dibattito televisivo, ho sentito uno degli ospiti, la signorina Serena Sileoni, vicedirettrice generale dell’Istituto Bruno Leoni, esclamare giuliva e trionfante: “i soldi mica si trovano per terra!”.

Il livello del dibattito è questo.

(Per la cronaca, l’Istituto Bruno Leoni è quello che a inizio anno si è preso la briga di finanziare l’esposizione di un tabellone luminoso alle stazioni di Milano Centrale, Roma Termini e Roma Tiburtina, per informare in tempo reale i viaggiatori di quanto stava inesorabilmente crescendo ogni tot secondi il debito pubblico. La loro pagina ci informa che l’organizzazione, nata nel 2003, promuove le idee per il “libero mercato” [virgolette loro]. “La nostra filosofia viene associata a diverse etichette: liberale, liberista, mercatista”.)

La signorina Sileoni dovrebbe sapere che i soldi, da quando la moneta è diventata fiduciaria, vengono creati dalle Banche centrali o tramite il credito bancario, per lo più attraverso scritture di dare e avere per una creazione ex nihilo, un termine dotto per dire che vengono fuori da un gioco di prestigio contabile. Letteralmente. Il che, se ci pensate, è più sorprendente che trovarli per strada.

La nostra Banca centrale, per esempio, cioè la Banca Centrale Europea, in questi anni di “facilitazione quantitativa” ha creato liquidità per 3 mila miliardi di euro, centesimo più centesimo meno, e lo ha fatto senza andarli a cercare per strada né tanto meno prelevarli dalle tasche dei cittadini europei. Purtroppo per noi, la BCE – di cui le banche centrali nazionali sono diventate una succursale locale – è per statuto politicamente indipendente, e delle sue decisioni, buone o cattive che siano, non deve rispondere a nessuno.

L’indipendenza della Banca centrale dal potere politico è un vecchio cavallo di battaglia del neoliberismo, che vede nello Stato minimo la migliore garanzia per il funzionamento ottimale del mercato, considerato ontologicamente il miglior sistema autoregolato per i rapporti economici e sociali.

Mentre altrove questa indipendenza, nonostante l’egemonia del pensiero neoliberista, è assente o molto relativa (penso alla FED, alla Banca d’Inghilterra o alla Banca del Giappone), in Europa è stata portata ai massimi livelli, godendo la BCE addirittura dello statuto di extra-territorialità – per cui non solo non è soggetta al potere politico, ma nemmeno alla magistratura è consentito di sindacare sul suo operato.

Il problema è dunque squisitamente democratico, poiché l’indipendenza della Banca centrale dal potere politico comporta la dipendenza dello Stato dalla finanza. Lo Stato è obbligato a reperire sui mercati, alle condizioni che questi stabiliscono, la quota di fabbisogno che la tassazione o altre entrate non riescono a coprire.

Per ottenere tali risorse – e alle migliori condizioni possibili – il Governo non può fare a meno di tener conto delle presunte esigenze dei mercati , a prescindere dal mandato per cui è stato eletto.

Il problema democratico è doppio, perché se da una parte i mercati condizionano il Governo, dall’altra il Governo può invocare la cogenza dei mercati (lo spread, vi dice qualcosa?) per deresponsabilizzarsi politicamente ogni volta che le circostanze lo obbligano a disattendere il programma per cui è stato eletto o a prendere misure impopolari.

Su questa esiziale dipendenza i numerosi esempi di questi anni dovrebbero averci tolto ogni dubbio. Chi tuttavia ne nutrisse ancora dovrebbe andare a riascoltarsi la conferenza del Presidente della repubblica, il 27 maggio scorso, quando si presentò alle telecamere per giustificare il fallimento del primo tentativo di governo giallo-verde.

Il discorso è tutto una confessione in tal senso.

In quell’occasione il Presidente, dopo avere affermato che il ruolo di garanzia che la sua figura istituzionale svolge “non ha mai subito ne può subire imposizioni”, giustificò la bocciatura della candidatura di Paolo Savona con il fatto che “la designazione del ministro dell’economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari”, per cui c’era l’esigenza di un profilo che “al di là della stima e della considerazione per la persona [di Savona], non sia visto [dai mercati] come sostenitore di una linea più volte manifestata, che potrebbe provocare probabilmente o addirittura inevitabilmente la fuoriuscita dell’Italia dall’euro”.

Praticamente, ci disse che il suo ruolo istituzionale non può subire imposizioni da una maggioranza democraticamente costituita, quelle che vengono dai mercati sì.

Ci fece anche notare, en passant, che l’euro non è materia di legittima discussione democratica. Ma questa non è una novità.

Mattarella rincarò poi la dose, insistendo sul fatto che “L’incertezza della nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread giorno dopo giorno aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa giorno dopo giorno bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito, e configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane”. Seguì un empatico richiamo al suo “dovere di essere attento alla tutela del risparmio degli italiani” (gli indigenti assoluti e quelli relativi, 5 e 10 milioni rispettivamente nel 2017, sono probabilmente il risultato di una lunga distrazione).

Incurante del rigor di logica e con supremo sprezzo del ridicolo, concluse infine con la grottesca affermazione “In questo modo si riafferma concretamente la sovranità italiana”.

La sovranità che si riafferma attraverso la subordinazione, ossimoro interessante.

La dipendenza dello Stato dai mercati, quindi il deterioramento del processo democratico come conseguenza della perdita della sovranità monetaria, è un obiettivo politico che chi teorizzava questo assetto ha perseguito con determinazione e piena consapevolezza. Un processo che ha portato a Maastricht e all’eurozona, e che da noi è iniziato nel 1981, con il famoso divorzio fra Tesoro e Bankitalia ad opera di Beniamino Andreatta e del suo sodale Carlo Azeglio Ciampi.

Dubito che i due non avessero chiare in mente le conseguenze dell’operazione. Andreatta, commentando dieci anni dopo quel che era stata definita la “lite delle comari” – ovvero lo scontro istituzionale fra lui e l’allora Ministro delle finanze Rino Formica, ammetteva candidamente:

“… Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta piu’ difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato.”.

Ho sentito spesso invocare le attenuanti della buona fede.

La buona fede, ammesso che ci sia, in politica è difficilmente spendibile come titolo giustificativo: ho il sospetto anzi che l’espressione non sia altro che un modo più educato per definire la stupidità. E comunque gli esiti disastrosi rimangono tali, quand’anche le cause che li hanno prodotti non fossero dovute a dolo.

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