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Il tramonto del Pd? Un'ottima cosa per il Paese

di Carlo Formenti

Il malinconico tramonto del PD è una catastrofe per le nostre élite neoliberali, resa più tragica dal parallelo afflosciarsi di Forza Italia, l’altra grande stampella del centrismo moderato che, alternandosi con i Dem, ha garantito una scrupolosa gestione degli interessi del grande capitale e delle sue istituzioni transnazionali (Ue in testa). È quindi più che comprensibile che “tecnici”, giornalisti e altri intellettuali dell’ancien regime neoliberista si prodighino quotidianamente per offrire i propri consigli in merito alle strategie per rianimare il moribondo, o almeno per infondergli energie sufficienti a fronteggiare la minaccia “populista” e “sovranista”. Da qualche tempo, tuttavia, gli specialisti accorsi al capezzale del malato sembrano nutrire scarse speranze sulle prospettive di guarigione. È il caso, fra gli altri, di Paolo Franchi, il quale, in un lungo articolo (“PD, il partito <<doppio>> che non riesce a discutere”) apparso sul Corriere del 24 settembre, sembra prossimo a emettere una prognosi infausta.

L’analisi di Franchi, lucida e spietata, si articola su tre punti fondamentali: 1) il PD è nato troppo tardi, quando i modelli internazionali che ne avevano ispirato il progetto erano già in crisi; 2) per tentare di sopravvivere dovrebbe operare una scelta secca fra due alternative reciprocamente incompatibili: ricostruirsi un’identità, o almeno un’immagine, di sinistra, oppure procedere senza esitazioni sulla via delle “riforme”, tentando di confluire in (o di costruire) un ampio fronte antipopulista: 3) posto che si tratta appunto di una scelta secca, deve essere disposto ad accettare l’eventualità di una scissione e a prendere atto che non può continuare a vivacchiare con l’attuale identità ibrida. Vediamo come Franco approfondisce i punti in questione.

Il PD è nato, più di dieci anni fa, attraverso una “fusione fredda” fra postcomunisti e postdemocristiani, un miscuglio mal riuscito di forze accomunate dall’ambizione di applicare all’Italia le lezioni di Bill Clinton e Tony Blair, due modelli già contestati a quei tempi, ma destinati a perdere qualsiasi credibilità di fronte alla grande crisi finanziaria del 2008 e ai suoi effetti devastanti sulle condizioni di vita, nonché sui livelli di occupazione e di reddito di centinaia di milioni di cittadini-elettori occidentali. A tenere in vita questo aborto al contrario (cioè nato non prematuro, bensì fuori tempo massimo) ci hanno provato prima Bersani, con il suo appello allo spirito di sopravvivenza della “ditta”, poi Renzi con il suo arrogante tentativo di costruire un partito personale sulle rovine della tradizione. Tentativi clamorosamente falliti come certificato dai risultati elettorali.

E adesso? O cerca di recuperare i milioni di elettori che hanno voltato le spalle non solo al PD ma alla sinistra in generale, o si rivolge a quell’elettorato moderato che si presume disponibile a mobilitarsi contro populismo e sovranismo. Obiezioni alla prima ipotesi: si tratta di “un campo di gioco ai limiti dell’impraticabilità”, che implica affrontare una campagna lunga, difficile e dall’esito incerto per ricostruire e/o ridefinire una nuova sinistra. Obiezioni alla seconda: compito altrettanto improbo, che verrebbe sicuramente premiato dal plauso dell’Economist ma difficilmente da quello di giovani, ceti popolari e classi medie. In ogni caso, è chiaro, scrive Franchi citando un articolo del Fatto, “che non si può tenere insieme chi vuol fare Corbyn e chi Macron”. Quindi o il PD ne trarrà le conseguenze oppure andrà verso un inevitabile destino di dissoluzione.

Analisi lucida e impeccabile, ripeto, con un paio di precisazioni. La prima è che chi scrive ritiene che la fine del PD sarebbe un’ottima cosa per il Paese, in quanto aprirebbe uno spazio politico per le forze, oggi deboli e disperse, che non temono di affrontare la traversata del deserto, cioè la lunga e difficile campagna per ricostruire/ridefinire la sinistra, per dirla con Franchi e che, aggiungo io, non temono di fare proprie parte delle istanze dei movimenti populisti e sovranisti, riqualificandole e ridefinendole in una prospettiva socialista. La seconda è che personalmente sono convinto che anche una separazione fra anima postcomunista e anima postdemocristiana sarebbe oggi tardiva, come lo è stata la loro fusione: nella migliore delle ipotesi ne verrebbero fuori, da un lato, un clone di Macron (il quale ha visto dissiparsi il proprio consenso in tempi brevissimi), dall’altro una sorta di Rifondazione 2.0, forse più grande, sicuramente più moderata e più inutile della versione originale.

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