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eticaeconomia

Organizzare i dati e le infrastrutture digitali come beni comuni

Una proposta dalla Gran Bretagna

di Iacopo Gronchi

Il discussion paper “The Digital Commonwealth – From private enclosure to collective benefit” recentemente pubblicato dalla IPPR Commission on Economic Justice – istituita per ripensare la politica economica nella Gran Bretagna del post-Brexit – fornisce un interessante contributo al dibattito sulla regolamentazione delle piattaforme digitali. La tesi fondamentale del paper è che la soluzione agli effetti negativi indotti sul piano sociale, economico e politico dalle c.d. piattaforme “universali” (Facebook, Alphabet, Amazon, Apple) sia il trattamento di data, big data e infrastrutture digitali quali “beni collettivi” politicamente riconosciuti e dunque opportunamente tutelati da istituzioni dedicate a tale scopo. La proposta è articolata in quattro proposizioni, che sintetizzerò negli aspetti più rilevanti dopo aver richiamato l’analisi delle piattaforme da cui quelle proposizioni scaturiscono.

In primo luogo, l’oggetto di analisi viene definito identificando i diversi modelli esistenti di piattaforma digitale, di cui vengono poi elencate le caratteristiche comuni. La classificazione proposta si basa sul tipo di attività svolta dalla piattaforma: advertising via-profilazione utenti (e.g. Google, Facebook), cloud providing (Amazon Web Services, Apple), accesso a prodotti (Spotify), accesso a servizi (Uber), servizi industriali (Siemens). Gli autori si concentrano sulle prime due categorie (advertising e cloud providing), e più precisamente sulle aziende che in tali settori dominano il mercato sulla base della “intermediazione, estrazione e analisi dei big data”: Facebook, Alphabet (la holding cui dal 2015 fa capo Google), Amazon e Apple.

Al netto delle diverse funzioni e modalità d’uso, tali imprese sono caratterizzate da almeno due analogie morfologiche: da un lato, la costituzione di una infrastruttura digitale autonoma capace di razionalizzare l’interazione sociale su rete secondo pattern comportamentali tracciabili; dall’altro, il conseguente abbattimento dei costi di transazione relativi alla stessa interazione sociale, sia essa declinata in processi di mercato (incontro tra domanda e offerta) o di circolazione dell’informazione (raccolta e riordino dati). La progressiva costruzione di simili ambienti digitali ha condotto alla profonda riorganizzazione di numerose attività economiche, nonché alla possibilità – per queste imprese – di capitalizzare al meglio alcune proprietà intrinsecamente connesse alla conformazione degli stessi: l’abbattimento dei costi marginali di produzione, la valorizzazione delle esternalità di rete connesse alla fruibilità dei social network, l’outsourcing della produzione di dati e servizi in favore di meno dispendiose attività di coordinamento degli attori economici; tutti fattori che tendono, secondo la teoria economica e le evidenze empiriche, alla graduale costituzione di monopoli.

In una prospettiva storica, la crescente capacità tecnologica di raccogliere dati dal mondo reale e di processarli in maniera sempre più puntuale e accurata – a prescindere dal loro volume e dalla loro varietà – consente di estrarre un significativo ammontare di valore sociale ed economico dall’informazione. Da questo punto di vista, le grandi banche dati (i.e. big data) che sono alla base dell’attività economica delle piattaforme digitali tendono ad essere continuamente alimentate di nuove informazioni e si rivelano economicamente rilevanti da almeno tre punti di vista.

In primo luogo, consentono di aumentare l’efficienza organizzativa e le performance d’impresa tramite l’ottimizzazione in tempo reale dei processi produttivi e la customizzazione del prodotto o servizio in base ai diversi profili di consumo. In secondo luogo, queste banche dati costituiscono la materia prima utile alla costruzione dei ‘profili’ di consumo elaborati dalle piattaforme e rivenduti sul mercato pubblicitario. In terzo luogo, i big data aprono spazi di opportunità per il raffinamento dei processi di apprendimento dell’intelligenza artificiale (AI).

I big data accumulati dalle piattaforme, inoltre, rappresentano il motore primo di una dinamica circolare ed espansiva che consente alle stesse di svilupparsi su una scala sistemica. Si tratta di una dinamica circolare in quanto fondata sulla triangolazione virtuosa tra utilizzo diffuso della piattaforma, raccolta dati e analisi dati per l’affinamento della stessa piattaforma. La natura espansiva è altresì riconducibile alla correlazione positiva tra quantità di dati, profittabilità degli stessi e capacità di acquisire quote orizzontali e verticali di mercato (per acquisire ancora più dati). Accumulata un’adeguata massa di informazioni digitalizzate, le piattaforme possono così porre il suggello finale al proprio sviluppo: la “enclosure” dell’utente nell’ecosistema della piattaforma promossa, da un lato, con la non-interoperabilità dei dati (e il conseguente disincentivo a migrare verso ecosistemi concorrenti) e, dall’altro, con la loro capacità di offrire un numero di servizi sempre più articolato e rendere la vita dell’utente sulla piattaforma sempre più integrata, autosufficiente e – come definito dal documento – universale.

Il terzo elemento affrontato dagli autori è dunque quello della “smisurata ambizione” delle piattaforme universali, e delle potenziali conseguenze sociali, politiche ed economiche della loro diffusione. Sul fronte dei benefici, sono elencati quelli per consumatori (più concorrenza, più offerta e più convenienza), imprese con particolare riferimento alle ‘nuove entranti’ (espansione del mercato, riduzione dei costi di transazione e di facilità di ingresso sul mercato) e per la società nel suo complesso (minor costo di accesso all’informazione, migliore connettività tra individui e comunità). Tra gli effetti negativi, gli autori pongono l’accento sulla tendenza delle piattaforme a configurarsi come oligopoliste o monopoliste nei mercati ove operano (l’acquisto di potenziali competitor, l’utilizzo non efficiente delle risorse finanziarie e le conseguenze negative sui processi d’innovazione). Inoltre il diffondersi delle piattaforme è associato alla crescente disuguaglianza economica (data la loro peculiare struttura occupazionale), al parzialmente interrelato fenomeno dell’evasione (o elusione) fiscale sui profitti da loro generati ed ai rischi per le violazioni del diritto alla privacy. L’insieme di rischi appena menzionato, viene proposto dagli autori non quale mero incidente di percorso ma quale caratteristica intrinseca all’attuale conformazione ed al modello di sviluppo perseguito dalle piattaforme digitali.

A fronte di uno scenario potenzialmente distopico quale quello che emergerebbe a seguito di un ulteriore consolidamento del potere economico delle piattaforme digitali, gli autori formulano la proposta di un “Digital Commonwealth”. Si tratta della costruzione di un ecosistema digitale pluralista, capace sia di contrastare il tendenziale monopolio delle piattaforme universali con la tutela dei data e delle infrastrutture digitali in quanto “beni collettivi”, sia di trasformare una simile “minaccia” in opportunità per la creazione diffusa di valore sociale, economico e politico. Sulla base di questa visione, essi delineano quattro obiettivi e quattro proposte per il governo del Regno Unito:

  1. Prevenzione del consolidamento di ‘monopoli digitali.Viene proposta una riforma della normativa sulla concorrenza ed un ampliamento delle competenze in capo alla Competitions & Market Authority (CMA). La nuova CMA dovrebbe essere in grado: da un lato, di valutare le fusioni d’impresa in base alla riduzione del potenziale d’innovazione nel settore, anziché in base al prezzo di mercato del servizio erogato; dall’altro, di bloccare acquisizioni orizzontali, richiedere alle piattaforme di pubblicare le proprie banche dati e investigare sull’utilizzo che di queste viene fatto.
  2. Regolamentazione dell’uso dei big data. Gli autori propongono di trattare le piattaforme digitali (universali) quali public utilities prevedendo a corredo la costituzione di un Office of Digital Platforms (OfDig). Le piattaforme verrebbero così regolamentate laddove la loro quota di mercato superasse una soglia oltre la quale la tutela dei servizi essenziali da esse erogati (e.g. uso di motori di ricerca, accesso a reti digitali) richiederebbe una licenza rilasciata dall’OfDig sotto strette condizioni operative. Lo stesso ufficio avrebbe inoltre compiti di sorveglianza e garanzia sulle pratiche dagli operatori di mercato.
  3. Costituzione di un organismo tecnico indipendente (il Digital Britain Public Service – DBPS) finalizzato a favorire l’accesso e la valorizzazione delle banche dati del settore pubblico. Il DBPS avrebbe l’onere di garantire l’interoperabilità digitale dei dati pubblici, nonché di sviluppare banche dati entro cui le informazioni possano essere tutelate e, laddove consentito e opportuno, rese accessibili a membri e organizzazioni intenzionati a utilizzarne il contenuto “for the common good”. Inoltre, il DBPS coordinerebbe sia il processo di empowerment tecnologico della pubblica amministrazione, sia processi di sperimentazione tecnologica legati a fini sociali e amministrativi.
  4. Promozione dell’uso dei big data a beneficio della creazione diffusa di valore socio-economico: costituzione di Digital Commonwealth Strategies a livello locale. Nella prospettiva di una digital economy a carattere “misto”, l’elaborazione di piani strategici mirerebbe a coinvolgere le autorità pubbliche locali, le associazioni civiche e le imprese sociali nella costruzione e gestione di nuove infrastrutture e strumenti digitali a servizio della comunità. Garantendo la natura open source dei prodotti finali e incoraggiando processi d’innovazione diffusi, ciò contribuirebbe a democratizzare le tecnologie urbane, nonché a creare valore sociale, economico e politico.

Nel complesso, l’approccio suggerito dagli autori si fonda su una ricostruzione condivisibile dello status quo e sul disegno strategico di un sistema istituzionale del tutto inedito e affatto audace, volto a riconoscere la natura collaborativa e co-creativa sottesa al valore sociale ed economico dei big data. Il carattere prototipico del canovaccio delineato apre numerose sfide per il quadro definitorio, normativo e politico attuale: ciò nondimeno, esso rappresenta il calcio d’inizio di una partita che si preannuncia molto lunga, ma che la politica non può esimersi dal giocare.

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