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La lezione di Danilo Zolo

di Italo Nobile

Dopo la morte di Domenico Losurdo, quella di Danilo Zolo toglie dal dibattito pubblico un’altra voce che aveva negli ultimi decenni spesso aiutato il popolo della sinistra, nelle sue varie sfaccettature, ad esercitare un severo vaglio critico sulle procedure di giustificazione (all’insegna dell’universalismo liberale) delle guerre americane. Se il primo aveva scavato nella tradizione liberale alla ricerca delle crepe che compromettevano la credibilità della narrazione politica e giuridica moderna, il secondo sottoponeva a critica le istituzioni cosmopolitiche attuali evidenziandone l’incoerenza alla prova dei fatti.

Tuttavia mentre il primo si permetteva di muovere qualche critica anche a Marx, appoggiandosi però sulle spalle di Hegel, il secondo ha compiuto il suo percorso teorico senza perdere di vista (sia pure non esplicitamente e con riserve polemiche soprattutto sulla questione sociale) la tradizione politica a cui ha dedicato la sua prima pubblicazione (Il personalismo rosminiano: studio sul pensiero politico di Rosmini, Morcelliana, Brescia 1963), l’agostinismo politico e cioè quella forma di realismo che in nome della mancanza di perfezione dell’esistente insiste sui limiti dell’azione umana politicamente intesa, innanzitutto.

Questa matrice viene trasfusa nell’interpretazione del pensiero marxiano relativamente ai rapporti con lo Stato e si ripercuote anche nella critica alla democrazia (e alle sue promesse “da marinaio”) e del globalismo giuridico.

Relativamente alla sua critica all’universalismo giuridico in campo internazionale forse andrebbero fatte alcune osservazioni: la sua tendenza a radicare in primo luogo la politica nell’antropologia è un tentativo interessante ma rischioso, dal momento che – se è vero che la ricerca attuale in campo antropologico e psicologico segna numerosi progressi – è tuttavia difficile partire dal terreno antropologico ed arrivare a quello politico in maniera così lineare.

In secondo luogo, se l’universalismo etico è un limite, bisogna comunque chiedersi se sia possibile una tutela delle diversità culturali senza introdurre almeno un universale etico (quello, ad esempio, della tutela della diversità culturale).

In terzo luogo, la critica delle istituzioni giuridiche sovranazionali in nome di un maggiore uso della trattativa tra Stati (in nome del giusrealismo) rischia di interpretare staticamente le relazioni internazionali e soprattutto di trascurare la dinamica destabilizzante di questo approccio dove ci si deve chiedere come garantire la compatibilità tra i diversi accordi.

Zolo a tal proposito dice che solo un realismo arcaico e dogmatico può ancora rappresentare gli Stati, in particolare quelli democratici, come attori impegnati a massimizzare il loro potere e la loro ricchezza a scapito di tutti gli altri soggetti. Sarebbe stato dimostrato, aggiunge Zolo, che le stesse grandi potenze tendono molto più alla stabilità che non alla continua espansione del loro potere.

L’argomento di Zolo vale però solo verso un realismo che proponga una metafisica statica dei rapporti di potere, non certo verso un’analisi materialistica del conflitto tra imperialismi che si basa sull’individuazione di fattori storicamente determinati e non su leggi astrattamente valide: la questione non è se gli Stati vogliano massimizzare il loro potere, ma se l’accumulazione del capitale rimanga o meno a livello nazionale e sia dunque gestibile da uno Stato, o invece si realizzi a livello sopranazionale e dunque costringa gli Stati a confliggere tra loro per contenderselo e per esportarlo. L’impazienza bellicista degli Usa smentisce oggi la tesi circa la tendenza delle superpotenze vincitrici a mantenere lo status quo. Bisognerà far passare l’era Trump per vedere se un realismo politico del genere sia più propizio alla pace o alla guerra.

Queste osservazioni critiche non debbono portare a sottovalutare l’apporto di Zolo al dibattito a sinsitra. Debbono piuttosto chiarire che il programma di ricerca marxista deve continuamente rielaborare i propri contenuti e deve guardare sì al realismo politico, ma non se ne deve far assorbire.

D’altra parte non possiamo dimenticare che la riflessione di Zolo è densa di fertili intuizioni, come quando ad esempio si inoltra con Franco Cassano ed altri autori in una riflessione sul Mediterraneo e dice, ben prima della crisi economica e politica europea: “Nella sua attuale subordinazione atlantica l’Europa, dimentica delle sue radici mediterranee, subisce una grave amputazione, che è all’origine della sua debolezza identitaria, della sua mancanza di autonomia politica, della sua impotenza come soggetto internazionale. L’Europa è costretta a pensarsi come ‘Vecchia Europa’, e cioè come una fase superata dello sviluppo storico che ha portato all’affermazione della civiltà occidentale. In questa prospettiva l’Europa è identica agli Stati Uniti, salvo la sua arretratezza politica e militare, che la rende un parassita della superpotenza americana. […] Un’Europa che riscoprisse le sue radici mediterranee potrebbe profilarsi […] come uno spazio di mediazione e di neutralizzazione degli opposti fondamentalismi”.

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