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sinistra

La controriforma degli esami di Stato

Un altro colpo ad una scuola sempre più destrutturata

di Eros Barone

E così il governo Salvini-Di Maio, sotto il formale consolato di Conte (di cui, peraltro, sono sconosciute le idee in materia scolastica e non solo), fornendo un ulteriore contributo alla nefasta opera di destrutturazione della scuola pubblica avviata una ventina di anni fa da Luigi Berlinguer e proseguita dai ministri che si sono succeduti al dicastero dell’Istruzione, ha messo mano alla ‘riforma’ degli esami di Stato, impropriamente definiti dai ‘mass media’ esami di maturità. Artefice di questa ennesima ‘riforma’ (meglio definibile come ‘deforma’ o, senz’altro, come controriforma) è il ministro Marco Bussetti, un esponente leghista che proviene dai ranghi degli insegnanti di educazione fisica, così come proveniva da quelli della scuola per l’infanzia la sua non rimpianta omologa di centro-sinistra che lo ha preceduto. Secondo quanto risulta dalle anticipazioni sul decreto definitivo che sarà presentato nel mese di febbraio del 2019, gli esami di Stato che concluderanno, nella scuola secondaria superiore, l’anno scolastico 2018-2019 prevedono: a) due sole prove scritte, abolendo la terza prova pluridisciplinare, a suo tempo introdotta da Berlinguer; b) l’eliminazione del tema di storia dalle prove scritte (una scelta culturalmente e politicamente rivelatrice per la sua gravità e unilateralità, dovuta, come sembra, al professor Luca Serianni, uno studioso di linguistica che collabora con l’attuale governo); c) l’introduzione di un test Invalsi, che da obbligatorio per essere ammessi agli esami, quale era inizialmente, è stato poi derubricato come non prescrittivo; d) l’abolizione della tesina di apertura del colloquio, che verrà sostituita da una relazione sull'alternanza scuola-lavoro; e) un meccanismo per l’attribuzione del punteggio finale che, rispetto a quello che è stato finora in vigore, aumenta il peso del curriculum formativo (40 centesimi) e riduce quello delle prove scritte e dei colloqui (20 centesimi per ciascuna prova scritta e per il colloquio).

Orbene, pur riconoscendo che il bilancio della efficienza formativa degli esami di Stato, tenendo conto di come questi sono stati progressivamente ridimensionati nel corso degli ultimi vent’anni, non risulta particolarmente confortante, converrà indicare le ragioni che hanno determinato lo svuotamento e la bagatellizzazione di una prova che, comunque sia, sul piano dell’efficacia formativa resta fondamentale per valutare il carattere, l’intelligenza e il grado di apprendimento delle diverse discipline espresso dalle nuove generazioni. E le ragioni sono presto dette. Basti pensare, innanzitutto, al marchio sempre più localistico che l’autonomia scolastica ha impresso su questa prova, dando spazio, così al Nord come al Sud, a intrecci perversi di cointeressenze, favoritismi e forme di ‘insider trading’ nel rapporto reciproco tra docenti, studenti e loro famiglie, che solo il mantenimento delle commissioni nazionali di esame, massicciamente composte da docenti estranei alle realtà locali (con l’ovvia eccezione di quel tradizionale ‘tribuno della plebe’ che è il membro interno), era in grado di prevenire assicurando, nel contempo, oggettività, imparzialità e rigore ai complessi processi valutativi inerenti alla prova di esame. Rispetto ad un modello formativo che, in altri periodi, ha fatto della scuola italiana una delle scuole più prestigiose e i diplomati e i laureati del nostro paese apprezzati e ricercati in tutto il mondo, l’inflazione dei cento e lode si configura quindi come il frutto di una “guerra dei Vespri” che, soprattutto nel Sud, ha unito in una sorta di Santa Alleanza di stampo risarcitorio e perequativo corpi docenti, corpi studenteschi, corpi familiari e corpi dirigenziali. L’esito inevitabile, paradossale e anomalo per chi osserva dall’esterno, ma del tutto logico ed intenzionale per le forze economiche, politiche e sociali che hanno coscientemente determinato lo svuotamento e la bagatellizzazione degli esami di Stato, è la scarsa selettività di una procedura sempre più macchinosa, che anche quest’anno è servita soltanto a realizzare, con il 99,6 per cento di promossi e solo 4 bocciati ogni mille candidati, lo storico principio spagnolo del “todos caballeros”, laddove un filtro quanto mai modesto veniva demandato ai consigli di classe dei docenti, che quest'anno non hanno ammesso 4 ragazzi su cento. Un esito nondimeno, come si è detto poc’anzi, del tutto logico ed intenzionale, in quanto strettamente connesso all’obiettivo strategico che, da molto tempo, tali forze si sono prefisse di raggiungere, ossia l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la consegna delle nuove generazioni, prima attraverso la privatizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti, poi attraverso l’alternanza scuola-lavoro degli studenti e ora attraverso la controriforma Bussetti, alle Furie del mercato capitalistico.

Non è questa la sede per affrontare un discorso vasto e complesso come quello inerente alla crisi della forma-scuola indotta dalla crisi generale del sistema capitalistico e, nello specifico, dalle politiche economiche ed educative di orientamento neoliberista che sono venute avanti in questi ultimi decenni sotto la spinta e la direzione della triade FMI-UE-BCE. Tuttavia, può essere opportuno rammentare una delle misure culturalmente più oscurantiste e socialmente più regressive adottate dal secondo governo Prodi (2006-2008), sottolineando nel contempo che di tale misura improvvida e controproducente l’opinione pubblica fu tenuta del tutto all’oscuro: la soppressione dell’Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) e degli Irre (Istituti Regionali di Ricerca Educativa). Sia i sindacati della scuola (tutti, nessuno escluso, dai confederali, che furono negli anni ’70 e ’80 fra i principali sostenitori della costituzione degli Irre, ai sindacati di base, dallo Snals alla Gilda) sia le associazioni professionali degli insegnanti (dal Cidi all’Uciim e a Ds) sia il ministro Fioroni non fecero una piega e non trovarono alcunché da obiettare ad un provvedimento che era in totale contrasto con la linea del rilancio e del potenziamento del sistema pubblico della ricerca educativa indicata, solo pochi anni prima, dal Dpr n. 190 del 6 marzo 2001 (provvedimento adottato, fra l’altro, da un governo di centro-sinistra), oltre che con il reclutamento del personale tecnico degli Irre, che fu posto in atto, per periodi di tempo variabili fra i tre e i cinque anni, con un concorso svoltosi nel 2004 fra gli insegnanti interessati a fare un’esperienza di ricerca e di formazione in campo educativo.

Chi scrive, pur avendo espletato per cinque anni, come insegnante comandato, attività di ricerca e di documentazione presso l’Irre Lombardia, e pur avendo più volte sollevato il problema del rilancio e del potenziamento degli Irre in occasione di riunioni e assemblee, prima in qualità di componente della Rappresentanza Sindacale Unitaria dell’Irre Lombardia e poi in qualità di membro del Comitato Direttivo della Cgil Scuola varesina, non ottenne mai alcuna risposta né tanto meno alcun impegno dai dirigenti provinciali e nazionali del sindacato, i quali, facendo orecchi da mercante, dimostrarono in effetti di essere subalterni alle politiche neoliberiste di destrutturazione della scuola pubblica e del sistema pubblico della ricerca educativa condotte con pari determinazione tanto dai governi di centrodestra quanto dai governi di centrosinistra.

Pertanto, va detto che la chiusura degli Irre non solo tolse una preziosa opportunità professionale e culturale ai docenti italiani, ma si ripercosse altresì sulle scuole che avevano partecipato ai progetti avviati dagli Irre, progetti che furono interrotti e non più ripresi. Essa arrecò, inoltre, un grave danno alla stessa autonomia delle scuole, pur tanto decantata dalla retorica ministeriale e governativa, in quanto le privò dell’azione di supporto, di sostegno e di stimolo svolta dagli Irre sul terreno della ricerca educativa e della formazione degli insegnanti. Altrettanto grave fu, infine, il danno che venne inferto alle prospettive del sistema pubblico della ricerca educativa nel nostro paese con il chiaro intento di promuovere e incoraggiare la penetrazione delle agenzie formative private all’interno della scuola.

In conclusione, pensando alla privatizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti, introdotta nel 1994, nonché alla logica premiale e all’induzione dell’interesse economico nell’organizzazione e nello svolgimento della funzione docente, che a tale privatizzazione è coestensiva, risulta innegabile che nelle riforme di questi ultimi decenni fosse implicita una sostanziale degradazione della figura del docente. In tal modo, il degrado economico e sociale dell’intero ceto dei docenti ha finito col determinare, congiungendosi all’ideologia della ‘parentocracy’ ìnsita nel concetto di scuola come servizio ai clienti, il ridursi dei docenti a proletariato intellettuale, degno solo, a seconda delle propensioni, di compassione o disprezzo. Tale degrado ha prodotto, come ulteriore conseguenza, l’abbassamento del livello culturale e della maturità intellettuale e morale dei giovani che escono dalla scuola italiana. Non era difficile prevedere, già una trentina di anni fa, che il degrado della scuola sarebbe presto arrivato a mettere in pericolo la stessa sicurezza fisica dei docenti. È chiaro infatti che una scuola intesa come grande parcheggio per ragazzi non ha più alcun filtro che la protegga dalla degradazione sociale. Gli episodi di violenza nelle scuole, di cui leggiamo sui quotidiani, sono dunque destinati ad aumentare di numero e di gravità, poiché sono anch’essi correlati a quella sistematica negazione della funzione specifica della scuola come istituzione in cui si va per insegnare e per imparare discipline, contenuti e metodi ben precisi, che è l’anima delle riforme attuate in questi ultimi decenni.

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