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Il lavoro subordinato

di Figure

Le caratteristiche del lavoro autonomo di seconda generazione non sono cause, quanto sintomi di una diversa concezione dei rapporti fra venditore e compratore di lavoro nell’età contemporanea. Anche al lavoratore dipendente, nonostante le grandi differenze, è così proposto un modello nel quale le richieste di libertà e autonomia trovano spazio entro un modello orizzontale, responsabilizzante, compatto. Il management contemporaneo, la gestione delle risorse umane, si occupa appunto di questo.

Per capire di cosa si tratta, un esempio interessante è quello delle dichiarazioni di Marco Minghetti, che in Italia, nel 2005, ha fondato la prima cattedra di Humanistic management. Dall’omonimo Manifesto:

Un fantasma si aggira nel mondo aziendale: lo Humanistic Management. Un modo di fare impresa nuovo rispetto ai canoni tradizionali dello Scientific Management […]. Si traccia così il possibile percorso di un management che non teme di utilizzare tutte le risorse messe in campo dalle nuove ICT, ma per il quale la poesia, l’arte, la filosofia si traducono in catalizzatori […].

Un compito che può essere assolto grazie a un approccio incentrato sulla contaminazione, sulla diversità, sulla metadisciplinarità. Un umanesimo in cui si incontrano Dioniso e Apollo, il professionista e il manager, il tecnologo e il romanziere, tutti parte di una stessa molteplice unità.

Tutto chiaro? Non è semplice, in verità, comprendere di cosa si tratti. Si può intuire, ad ogni modo, che se per un verso il vecchio management scientifico era orientato sui grandi numeri, sulla fabbrica fordista – in pratica su assunzione, licenziamento e gestione del conflitto – qui abbiamo che fare con l’individuo. La parodia dello «spettro che si aggira» di K. Marx non è da intendere solo come irrisione verso l’antiquato conflitto di classe: contiene invece un’utopia di superamento. Il tentativo della contemporanea gestione delle risorse umane, infatti, è quello di oltrepassare il conflitto fra datore di lavoro e dipendenti, proponendo piuttosto una cooperazione sulla base di intenti comuni. L’obiettivo, in definitiva, è semplice: il lavoratore deve abbracciare la causa aziendale, sposarne i valori, assumere il lavoro come orizzonte di senso.

Nonostante l’accento spesso marcato sul versante umanistico, della persona, i criteri secondo i quali è possibile attuare una buona gestione delle risorse umane devono essere razionali, scientifici, trasmissibili. Università e corsi privati si occupano di formularli e divulgarli, all’interno dei tanti corsi, master, curricula dedicati all’argomento.

Risorse umane. Persone, relazioni e valore di G. Costa e M. Giannecchini (McGraw-Hill, 2005, Milano) è uno dei manuali universitari sul quale il futuro personale aziendale esperto in risorse umane si forma.  In questo senso il manuale è uno spazio fondamentale di mediazione di una visione del mondo e (in questo caso) di un’idea di rapporti lavorativi, ad una generazione di studenti di economia che dovrebbe trovarsi un domani ad agire secondo i dettami appresi. Anche se lo scarto tra la visione mediata dal manuali e la realtà aziendale e lavorativa, come si può immaginare, è sempre molto ampio, ciò non toglie che la visione manualistica abbia una sua pregnanza ideologica, e che piano piano, generazione dopo generazione di personale formato secondo una serie di idee, la realtà si possa spostare verso il modello proposto dall’accademia. 

Il valore al quale il manuale fa riferimento come fine ultimo è (potevamo aspettarcelo) la produttività. Il responsabile delle risorse umane è l’addetto alla mediazione tra i vari soggetti che gravitano attorno all’azienda, ma in particolare tra la dirigenza e i lavoratori. Un buon responsabile può dare il suo contributo per migliorare l’azienda in un’ottica di competitività e innovazione. Nei modelli aziendali novecenteschi (nelle retoriche del manuale connotati come desueti e incapaci di affrontare la sfida del presente) il suo ruolo era meramente contabile-amministrativo, o al massimo gestionale, ma senza nessuna voce in merito alle scelte strategiche e strutturali dell’azienda. Il responsabile delle risorse umane veniva considerato come un mero costo, magari necessario, ma improduttivo. Questa idea è legata a un’ idea industriale – fordista nelle sue connotazioni negative – che è oramai passata di moda: le nuove aziende, se vogliono affrontare il mercato di oggi, devono avere un nuovo modello di gestione dei rapporti interpersonali: il responsabile delle risorse umane è fondamentale.

Anche qui la svolta è di natura umanistica:

Le persone hanno caratteristiche individuali, fisiche, psicologiche e sociali che ne differenziano il comportamento lavorativo, e quindi il valore, che potenzialmente sono in grado di apportare in una relazione organizzativa.

Non è comunque corretto considerare le persone solo per questo, anche perché il valore che apportano è funzione del coinvolgimento dell’individuo nella sua interezza. [p.40]

Al lavoratore macchina, mera forza fisica o capacità tecnica, si sostituisce la persona nella sua complessità esistenziale. Saper trattare il lavoratore come uomo a tutto tondo è il compito del responsabile delle risorse umane. Il di più che questa concezione può dare all’azienda è la capacità di mettere a valore l’interezza di questo capitale umano. Troppo spesso tanta intelligenza, sapere pratico e creatività dei lavoratori rimangono inutilizzati a causa di strutture gerarchiche di comando, di conflitti interni, di posizioni date che non lasciano spazio all’individuo di esprimere al meglio le proprie capacità. Questo di più è un ingrediente fondamentale per affrontare la natura flessibile, la competitività, la continua necessità di innovazione del mercato contemporaneo. L’affermazione si fa ancora più significativa all’interno di un’economia della conoscenza centrata sul «capitale intellettuale embedded (incorporato) nelle persone»; in questo contesto la capacità di valorizzare l’individuo nella sua complessità cognitiva, di estrarre valore da queste forme specifiche di lavoro, è fondamentale per la riuscita dell’impresa.  Il lavoratore dev’essere messo nella condizione di potere e volere mettere a disposizione ogni sua capacità.

Per questa ragione al contratto di lavoro che formalizza il rapporto tra parte datoriale e lavoratore dev’essere aggiunto un contratto psicologico.

Il contratto psicologico attiene ad una disposizione interiore ad adempire un’obbligazione di tipo tecnico-giuridica, o a vivere una relazione organizzativa o sociale, con spirito di collaborazione, di fiducia e con forte impegno affinché le attese, implicite ed esplicite, formali ed informali, che sono alla base della relazione, trovino una risposta soddisfacente per entrambe le parti coinvolte. [p.268]

Il contratto psicologico è un patto fondato sulla sfera emotiva dei soggetti e che in maniera informale ne definisce il rapporto in un’ottica collaborativa. La concezione del lavoratore come persona da parte aziendale e il coinvolgimento emotivo aprono lo spazio per la costruzione di una serie di valori aziendali condivisi dai vertici dell’impresa e dai lavoratori; attraverso questi valori condivisi è possibile sviluppare processi di responsabilizzazione, consenso e partecipazione: la sensazione di giocare un po’ tutti per la stessa squadra.  Il manuale propone di costruire questo ambiente aziendale attraverso pratiche di marketing interno, attività nella quale la macchina narrativa pubblicitaria, rivolta normalmente verso i clienti esterni, viene settata in direzione del personale interno. Esempi di queste pratiche sono i capodanni aziendali di fantozziana memoria, le esperienze di team-building costruite sul gioco e la convivialità, o l’idea di una piccola azienda padovana di stampare un libretto pubblicitario costruito sulle fotografie, i nomi e le biografie dei lavoratori. Quest’ultimo esempio è particolarmente significativo per la doppia direzione che riesce a mettere in campo: da un lato – verso l’esterno – l’azienda si costruisce un’immagine umana, tra la grande famiglia e il team affiatato; dall’altro lato – verso l’interno – i lavoratori si ritrovano protagonisti del loro lavoro in una narrazione che li mette al centro e gli conferisce l’importanza che gli spetta; «il nostro vero valore sono i nostri lavoratori» sembra dire l’azienda. 

Ma non è semplicemente una questione di narrazione. In questa proposta il lavoratore dovrebbe trovare una posizione nuova nella struttura aziendale. Non più semplicemente base della catena verticale di comando al quale arrivano gli ordini da eseguire, ma interlocutore partecipe alla costruzione della struttura stessa. Dopo le richieste di controllo operaio della produzione maturate nel clima politico degli anni Sessanta e Settanta, anche gli economisti aziendali capiscono che le strutture rigidamente gerarchiche non sono produttive nel contesto degli odierni modi di produzione per almeno due motivi:1) la partecipazione attiva e libera dei lavoratori rende i lavoratori stessi più produttivi; 2) le competenze del lavoratore che vive e esperisce la produzione in prima persona (contro quella del manager che la vede dall’alto) sono preziose per la risoluzione dei problemi e per il miglioramento del processo produttivo nella direzione della razionalizzazione e dell’eliminazione degli sprechi. Questo processo di orizzontalizzazione della struttura aziendale sembra soddisfare anche una serie di istanze dei lavoratori nella direzione dell’autonomia, della libertà e del bisogno di rendere meno gerarchici e autoritari i rapporti aziendali. Sembrano trovare qui soddisfacimento una parte dei desideri che, negli anni caldi della contestazione operaia, hanno agitato le maglie troppo strette dell’organizzazione della fabbrica fordista rischiando di farla esplodere.

In questi modelli – che funzionano poi nella realtà più o meno bene a seconda dei casi – i valori aziendali sono introiettati dai lavoratori che si fanno compartecipi degli interessi datoriali. Il controllo diventa auto-controllo, il cronometrista è dentro; il desiderio dell’azienda si armonizza con il desiderio di ogni singolo lavoratore producendo un eden lavorativo, aumentando le prestazioni, la produttività e le possibilità competitive ma anche il benessere del lavoratore stesso. Il lavoratore si sentirà libero e motivato a mettere in gioco tutta la sua persona per il buon funzionamento della macchina aziendale poiché sentirà la relazione tra sé e il datore di lavoro come relazione tra pari, orizzontale, sovrasignificata da un surplus emotivo (non si lavora solo per lo stipendio, ma anche perché il lavoro è uno spazio di autodeterminazione e senso). L’armonia aziendale è frutto di un difficile lavoro, ma grazie ad un buon professionista delle risorse umane può essere raggiunta, per la felicità di tutti.

Se i responsabili delle risorse umane sono una struttura di mediazione tra lavoratori e azienda, il loro ruolo sembra confondersi con l’istituzione che storicamente ha trattato i rapporti tra queste due parti: il sindacato. L’assenza quasi totale della questione sindacale all’interno del nostro manuale è particolarmente loquace.

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