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operaviva

Storia e rivoluzione in Marx

La logica del materialismo storico

di Stefano Petrucciani

Pubblichiamo un estratto della relazione che verrà presentata al convegno 200 Marx. Il futuro di Karl, al Museo Macro di Roma, dal 13 al 16 dicembre. Qui il sito dell’iniziativa

Scriveva Gramsci in un notissimo articolo sull’Avanti del 24 novembre 1917: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato». Ma Carlo Marx, come aveva pensato la rivoluzione?

La questione teorica che Marx si pone a partire dal 1843 diventa propriamente politica quando scoppia la rivoluzione del 1848, alla quale egli partecipa in Germania. Le rivoluzioni del 1848 in Europa hanno primariamente obiettivi «borghesi»: reclamano le costituzioni, i diritti di libertà, il suffragio universale, la repubblica democratica, l’unità moderna dello Stato nazionale.

Una grande difficoltà, pertanto, si pone per Marx a ridosso della rivoluzione quarantottesca: se la rivoluzione borghese è ancora da fare (liberal-democratica è infatti fondamentalmente, nelle sue rivendicazioni politiche, la rivoluzione del ’48), come si può, restando coerenti con la visione stadiale della storia propria del materialismo storico, pensare che si possa già passare alla fase della rivoluzione proletaria? Non bisognerà prima attendere che la società borghese si sia compiutamente sviluppata, e abbia esaurito tutte le sue potenzialità? Insomma, materialismo storico e teoria della rivoluzione non sono forse incompatibili?

Soffermarsi in modo attentamente critico su questo punto, che non sempre viene analizzato come meriterebbe, consente in realtà di mettere a fuoco alcune aporie di fondo della prospettiva marxiana. A norma di materialismo storico, infatti, la rivoluzione proletaria deve necessariamente seguire a quella borghese. Se è vero dunque che la rivoluzione borghese non è ancora completata, l’obiettivo di fase deve essere quello di completare prima la rivoluzione borghese e solo in seguito passare alla fase successiva. Ma mentre il materialismo storico parla di epoche distinte, la teoria politica parla un linguaggio completamente diverso. Anche dopo le sconfitte del biennio 1848-49, e dopo la presa d’atto del fallimento dell’unità tra le forze proletarie e quelle democratico-borghesi, Marx nell’Indirizzo del comitato centrale della lega dei Comunisti nel quale tira le somme della fase politica delinea un programma che si basa sempre sull’idea della «rivoluzione in permanenza»1, cioè della continuità di un processo rivoluzionario che prima ha obiettivi piccolo-borghesi e poi si volge contro la borghesia, radicalizzandosi in itinere (come era accaduto nel caso francese dal 1789 al 1793). In ogni caso, come aveva già visto bene Hans Jürgen Krahl, il concetto di rivoluzione che Marx sviluppa come «intuizione pratica», cioè pratico-politica, è il seguente: la realtà della rivoluzione borghese, non ancora completata, è un fatto; compito del proletariato è quello di agire su di essa per trasformarla in un’altra cosa2. Vi è dunque un punto teorico che emerge molto chiaramente: secondo la visione stadiale delineata, come abbiamo visto, dal materialismo storico e da Engels (ma non solo da lui), la rivoluzione sociale avrebbe dovuto verificarsi nei paesi capitalistici più avanzati e quindi innanzitutto in Inghilterra. Ma questo è proprio il Paese dove la dottrina marxista incontra maggiori difficoltà ad affermarsi. Dal punto di vista della strategia pratico-politica, invece, Marx capisce molto bene che, se una rivoluzione sarà possibile, lo sarà probabilmente in Paesi, come la Germania (e più tardi la Russia), dove la rivoluzione borghese è ancora incompiuta o neppure cominciata, perché solo lì si può mettere in moto quella dinamica che può innescare un terremoto sociale. Come accadrà nel ’17 in Russia, dove una breve fase di rivoluzione liberale sarà seguita da una rivoluzione comunista.

È chiaro però che, ragionando su questa linea, lo schema storico-materialistico viene sostanzialmente sconvolto. Si mostra in tutta la sua asprezza la contraddizione tra la teoria storico-sociologica e la teoria politica della rivoluzione che caratterizza il pensiero di Marx. Gli studiosi marxisti intelligenti si sono accorti della gravità del problema, ma hanno proposto soluzioni che io non trovo soddisfacenti. Ne cito due, in modo estremamente schematico: Massimiliano Tomba butta via la teoria sociologica della rivoluzione e ne fa una categoria solo pratico-politica3. Il compianto Domenico Losurdo rinuncia alla rivoluzione in Occidente e si contenta dell’unica rivoluzione effettiva, che per lui diventa la sola autentica: quella orientale, antimperialista e anticoloniale4. Però Marx era un’altra cosa. Le contraddizioni presenti nel pensiero di Marx e di Engels sono state invece in qualche modo chiarite dalle vicende che si sono snodate nel secolo successivo alla loro morte. Proviamo dunque a trarre qualche conclusione estremamente schematica. La visione stadiale nella quale il socialismo e il comunismo rappresentano l’approdo finale del percorso storico si è rivelata essere soprattutto una fede: le lotte socialiste e comuniste non sono la preparazione del regno dei cieli sulla terra (anche se questo mito – il regno della libertà – è stato un elemento essenziale della loro forza). L’opposizione e le lotte socialiste e comuniste sono, molto più realisticamente, una forza in campo in quel complesso antagonistico che è la società moderna. Esse non sono pertinenti a un futuro. Sono rigorosamente contemporanee al mondo borghese: e infatti sono già presenti agli albori delle rivoluzioni borghesi – che dunque non sono in senso stretto rivoluzioni borghesi (pensiamo agli Zappatori in Inghilterra o ai babuvisti in Francia). Esprimono fin dall’inizio la lotta per una diversa modernità, per una diversa lettura dei principi di libertà ed eguaglianza.

Ma nella modernità queste forze socialiste e comuniste giocano ruoli assolutamente diversi in dipendenza dalla loro collocazione nel sistema-mondo capitalistico. In alcuni (non tutti) dei Paesi più avanzati del centro, dove la borghesia ha effettivamente vinto e costruito la sua società, le forze socialiste e comuniste hanno svolto effettivamente ed efficacemente il ruolo di contestazione e trasformazione degli assetti sociali, non rivoluzionandoli ma modificandoli in profondità, anche se in modo non irreversibile, come ha mostrato la ripresa neo-liberista dell’ultimo trentennio. Per quanto riguarda invece i Paesi che, per dirla con il linguaggio di Immanuel Wallerstein, si collocavano alla periferia o alla semiperiferia dell’economia-mondo, qui si è sviluppata una storia completamente diversa: le grandi rivoluzioni a guida marxista, quella russa e quella cinese, non hanno certo generato un nuovo ordine superiore a quello borghese; era evidentemente un obiettivo impossibile, e anche i rivoluzionari russi lo ritenevano tale; puntavano infatti sul contagio della rivoluzione verso occidente, fino a che non ripiegarono sul «socialismo in un solo paese». Ciò che esse hanno potuto realizzare, nella realtà effettuale delle cose, è stato qualcosa di completamente diverso: sostituire la rivoluzione borghese mancata, ovvero tracciare una via alternativa verso la modernizzazione che non fosse segnata dalla subalternità alle potenze capitalistiche occidentali dominanti, ma si ponesse rispetto a queste in un rapporto di autonomia e di conflittualità. Qui il marxismo è stato di fatto la ricerca di una via non superiore ma alternativa verso lo sviluppo moderno, su una linea di non-subalternità alle potenze «centrali»; che è stata effettivamente conseguita, ma a prezzi elevatissimi in termini di libertà e di costi umani. Ma alla periferia dell’economia-mondo, come si sa, i valori della libertà e della dignità umana hanno avuto sempre un corso molto limitato: e sono stati spesso cancellati e calpestati anche nei Paesi subalternamente integrati all’ordinamento liberal-capitalistico.

Dopo l’89, questa parabola si è chiusa; anche se una via inedita, che non sappiamo verso quale futuro andrà, è stata imboccata da un enorme Paese come la Cina. Molto schematicamente, dunque, si può concludere che: nessuna rivoluzione socialista è riuscita in Paesi che avevano fatto la rivoluzione borghese; le sole rivoluzioni socialiste vittoriose sono quelle che hanno sostituito le rivoluzioni borghesi. Le rivoluzioni vittoriose non sono state socialiste nel senso di Marx, ma neanche le rivoluzioni borghesi sono state propriamente «borghesi», perché in quanto fondative del mondo moderno si portano dentro fin dall’inizio una lettura di esso che è alternativa rispetto all’egemonia borghese.


Note
1.
Cfr. Indirizzo del comitato centrale della lega dei Comunisti, in Marx-Engels, Opere scelte, p 372
2.
Cfr. Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, 1973, p. 421; citato in Tomba, Strati di tempo, p. 93.
3.
Op. cit., pp. 282-83.
4.
Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, 2017.
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