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Elezioni europee: a che punto siamo?

di Sergio Cararo

L’anno si chiude con l’ennesima capitolazione di un governo di un paese Pigs – l’Italia in questo caso – davanti ai diktat dell’Unione Europea sulle priorità economiche e sociali. Le imposizioni della Commissione Europea e la subalternità del governo, stanno dimostrando a tutti che il Parlamento  e i parlamentari italiani sono ridotti al ruolo di passacarte della approvazione della legge di Bilancio decisa da Bruxelles.

E’ la conferma, prevista e prevedibile, della impraticabilità di ogni illusione negoziale in assenza di un “Piano B” che preveda la rottura, anche unilaterale, con i Trattati europei.

Ma è anche la conferma della impraticabilità di ogni ipotesi che preveda una “riforma” o una “modifica” dei trattati. Chi si ostina a seminare questo ingannevole e illusorio orizzonte, ci porta fuori strada e ci mantiene dentro la gabbia; come quei criceti che fanno girare fino all’impazzimento la ruota mentre sognano di correre liberi.

Nelle prossime elezioni europee di maggio, e nei mesi che le precederanno, questo e non altro sarà il tema dirimente. Su questo si misureranno le opzioni politiche in campo e si determineranno le possibili convergenze, in Italia come in Europa.

Mentre a livello generale si va comprendendo che la contrapposizione tra europeisti liberalprogressisti ed europeisti della destra nazionalista è del tutto ingannevole (come ha scritto saggiamente Le Monde Diplomatique alcuni mesi fa), in Italia siamo ancora inchiodati ad una discussione sui contenitori del tutto avulsa da quella sui contenuti. In molti ambiti, per fortuna non in tutti…

Domenica scorsa, il Coordinamento nazionale di Potere al Popolo ha cominciato a discutere il cosa fare alle elezioni europee. In primo luogo se presentarsi o meno (e la maggioranza degli interventi si è pronunciata per accettare la sfida, approfittando però dell’occasione elettorale per farne una campagna politica all’interno delle “larghe masse” del nostro blocco sociale di riferimento). In secondo luogo, se farlo da soli come Potere al Popolo o guardarsi intorno per verificare se ci sono altre forze disponibili ad un programma di aperta rottura con i Trattati dell’Unione Europea.

Quasi contemporaneamente, a Napoli il meeting convocato dal sindaco De Magistris registrava una performance tutt’altro che entusiasmante, mentre l’assemblea di Mdp (socio fondatore di LeU) risentiva fin troppo evidentemente del richiamo della sirena di un Pd che, con Zingaretti, potrebbe tornare ad essere gestito dalla “ditta” (gli ex Pci/Pds/Ds etc.).

Ma sia a Napoli con De Magistris, che all’assemblea di Mdp, tutto si è sentito tranne che una impostazione adeguata alla posta in gioco; ossia uno scatto sul piano dei contenuti che ponesse, come ormai imposto obiettivamente dai fatti, la questione di una alternativa a tutto campo contro la gabbia dei vincoli previsti dai trattati dell’Unione Europea.

Al contrario, si rimasticano ancora luoghi comuni ormai estenuati, inefficaci e impraticabili, come “l’Europa dei diritti”, la “modifica dei trattati”, “l’Europa dei popoli”… Come se quanto avvenuto in questi anni non avesse dimostrato che il campo di gioco ha espulso dalla partita queste opzioni e imposto invece uno schema immutabile: ce lo chiede l’Europa (o meglio, l’Unione Europea, che è invece una struttura di governo economico-politico) e quindi ci si deve adeguare ai ristretti spazi di manovra che questa consente. Insomma è il dominio del “Tina” (there is not alternative).

E pazienza se ciò significa – a venticinque anni dal Trattato di Maastricht – ancora più disoccupazione, compressione salariale, distruzione del welfare, delocalizzazioni, deregulation totale del mercato del lavoro, impossibilità di spostare le risorse sulle emergenze sociali invece che sulle garanzie verso banche, investitori finanziari, multinazionali.

Anche le rodomontate della Lega e del M5S si sono ormai sgretolate, coprendoli di ridicolo (e di conseguenze sociali) di fronte a questa gabbia.

Delle due l’una: o si mette in programma l’ipotesi di andarsene dalla gabbia per rimettere al centro le priorità sociali (salario minimo, posti di lavoro, nazionalizzazione delle aziende e infrastrutture strategiche, imposte sulle ricchezze, referendum sull’adesione o revoca dei trattati, taglio delle spese militari e sottrazione ai vincoli militari, Nato o europei che siano), oppure si piega la testa o ci si agita, appunto, come i criceti sulla ruota.

Si tratta cioè di dare attuazione a quella ipotesi dello “sganciamento” elaborata da un marxista come Samir Amin, ridando gambe ad una visione di classe nell’azione nel nostro blocco sociale a livello nazionale ed europeo, e di riaffermare una visione anticolonialista nei rapporti con i popoli della sponda sud del Mediterraneo e dell’Africa.

Ed anche a livello europeo, soprattutto alla luce della rivolta sociale in Francia, non si può che rompere gli indugi e guardare con attenzione ad una alleanza con quelle forze popolari e alternative che propongono il “Piano B” come alternativa alla gabbia dell’Unione Europea. 

Non a caso, sono queste forze quelle che stanno dimostrando sul campo di essere capaci di evitare che i consensi operai e popolari vadano alla destra. France Insoumise, ad esempio sta dimostrando questo e i risultati dentro le proteste popolari dei Gilet Jaunes in Francia lo confermano. 

La “sinistra europea” tradizionale e idealmente antiliberista, ma ossessionata dalle “alleanze” politiciste , non ne sarebbe stata capace.

Dunque per le elezioni europee di maggio ci saranno in campo tre schieramenti e due opzioni politiche. Gli schieramenti saranno quello degli europeisti liberali/progressisti, quello degli euronazionalisti di destra e quello di chi non si riconosce in questa “ingannevole contrapposizione”. Ma le opzioni politiche in questo terzo campo saranno solo due: da una parte quelli che ritengono che il pericolo principale sia solo la destra e in nome di questo sono disponibili a rendere “potabile” qualsiasi contenuto, dall’altra chi vuole rompere la gabbia dei Trattati dell’Unione Europea con una visione internazionalista e di classe, e dunque giocarsi la partita dentro il “nostro popolo” per riaprire una prospettiva di rottura e cambiamento rimossa da troppo tempo in nome del politicismo.

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