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la citta futura

Fare i conti con la sinistra latinoamericana del XXI secolo

di Alessandra Ciattini

Solo l’analisi approfondita può farci comprendere a cosa veramente tende un’organizzazione politica, anche senza saperlo

Fare i conti con la sinistra latinoamericana del XXI secolo e con il suo addentellato, il socialismo del o nello stesso, non è un vano esercizio, ma una riflessione utile anche a focalizzare meglio l’attuale congiuntura italiana, sempre che si voglia ragionare, dando pane al pane, e non schematizzare in grossolane opposizioni dicotomiche, del tipo chi critica Lula da Silva è uno scherano dello spietato imperialismo statunitense.

Riflessione anche opportuna per cercare di fare un po’ di luce nell’attuale confusione che domina i vari gruppuscoli comunisti italiani, che non riescono a trovare un denominatore comune per costituire un fronte aggregante in vista delle prossime elezioni europee, e per rilanciare l’arduo processo di ricostruzione della coscienza di classe dissolta da decenni di politiche liberiste sedicenti di sinistra e di ipocrita buonismo verso i cosiddetti ultimi. Del resto, la coscienza tende a rattrappirsi quando l’individuo si trova di fronte al costante ricatto di chi ti intima: se vuoi campare queste sono il salario (irrisorio) e le condizioni di lavoro (pessime), facendoci comprendere che il problema non è mai esclusivamente ideologico.

Aggiungo che con il fare i conti con la sinistra latinoamericana non intendo scaricare su di essa la causa del peggioramento della situazione politica di questa regione del mondo (sarebbe sciocco e semplicistico), ma individuare il suo contributo a tale processo che è ovviamente dovuto ad una molteplicità di fattori. Tuttavia, credo che la demoralizzazione delle masse provocata da promesse non mantenute, sia pure continuamente agitate, non sia un elemento da sottovalutare.

Fatta questa breve premessa, cominciamo con riflettere su chi era e che ha fatto veramente nella sua vita politica Inácio Lula da Silva, operaio metallurgico, il quale, quando apparve sulla scena politica brasiliana, sembrò portare con sé l’inizio di una nuova era [1], in particolare per l’avviamento del Programma Fame zero, che ha sollevato dal livello di povertà milioni di brasiliani. Tuttavia, benché fosse temuto dai latifondisti e dalle multinazionali, i capitali non furono trasferiti all’estero, né avanzò la tanto pubblicizzata Riforma agraria, che avrebbe dovuto beneficiare 4 milioni e 500.000 contadini rappresentati dal Movimento dei lavoratori senza terra [2].

Queste politiche furono portate avanti in una fase di aumento dei prezzi delle materie prime, i quali (soprattutto quello del petrolio) sono stati ridimensionati nel 2014 a causa di scelte predisposte a mettere in crisi il progressismo latino-americano e anche a causa all’insignificante crescita delle economie capitalistiche principali. Di fronte a tale scenario l’Occidente ricorre al suo apparato militare, integrato da militari professionisti e mercenari, dagli strumenti mediatici e mafiosi per trasformare le società periferiche in zone di spietato saccheggio (v. Afghanistan, Iraq, Libia). Nello stesso tempo, gli Stati Uniti in declino si interessano di nuovo dell’America Latina e stanno riportandola sotto la loro invadente tutela.

Secondo James Petras, che ha pubblicato con Henry Veltmeyer un libro ¿A dónde va Brasil? y otros ensayos (2003), se Lula ha rappresentato di fatto un ritorno alla destra, dato che fu apprezzato come politico pragmatico dal FMI, BM, Tony Blair e George Bush, il MST potrebbe costituire, invece, una forza rivitalizzante della sinistra. Non dobbiamo stupirci di tale camaleontica trasformazione del PT che, partito dalla lotta contro la globalizzazione e il neoliberismo, sia approdato all’abbandono dei suoi stessi principi in un processo di cambiamento storico, che caratterizza tutti i movimenti politici, sia pure non sempre nella stessa direzione, e che cercherò di documentare a grandi linee.

Come scrivono Petras e Veltmeyer negli anni ’80 il PT aspirava ad una società socialista fondata su una democrazia partecipativa strettamente connessa ai movimenti sociali, sosteneva il non pagamento del debito estero, un’ampia redistribuzione della terra sostenuta dallo Stato, la socializzazione delle banche, del commercio estero e dell’industria nazionale. Alcuni dei suoi membri richiedevano persino l’espropriazione delle grandi industrie e la loro gestione da parte dei lavoratori. In esso erano confluiti i nuovi sindacati del settore metallurgico, gli attivisti religiosi progressisti, gli ecologisti, gli abitanti delle favelas, gli insegnanti etc.; purtroppo questo stretto legame con la base si spezzò nel momento in cui il partito, grazie alle vittorie elettorali, si trasformò in una macchina elettorale, persistendo nella sua retorica sociale, ma allo stesso tempo stabilizzandosi nell’apparato statale e istituzionale e approssimandosi ai partiti borghesi.

La predominanza della macchina elettorale costituisce una questione di grande rilevanza, perché – come è stato detto più volte – determina in primo luogo la fine della politica vera e propria, sostituita dalla menzognera lusinga dell’elettorato, la formazione di caste o di aristocrazie che vogliono rimanere al loro posto, costi quel che costi, e che alla fine se ne infischiano dei reali e stringenti problemi degli strati bassi della popolazione. È proprio quello che è avvenuto col PD, che si interroga seriamente soltanto sul come riconquistare i voti perduti e con essi i tanto ambiti privilegi ormai dissolti.

Successivamente il PT assunse una posizione socialdemocratica fautrice dello Stato del benessere, nello stesso tempo la sinistra marxista continuò a rivestire un ruolo importante nell’organizzazione. Tuttavia, i suoi funzionari ormai appartenevano nella maggioranza alla classe media, i marxisti erano diventati l’opposizione interna e, nonostante i contenuti del programma radicale non fossero mutati, i governatori e i sindaci eletti non intaccarono le relazioni di proprietà. Dalla fine degli anni ’90 si sviluppa un ribaltamento politico significativo: i richiami retorici al marxismo, il diniego di pagare i debitori stranieri sparirono dal programma; i capi stavano transitando verso il neoliberismo e stabilivano relazioni con il mondo finanziario, con gli affaristi e con coloro che controllavano l’agroesportazione.

Dopo un anno di governo cominciarono a farsi sentire le critiche verso la politica di Lula; in particolare, un suo convinto sostenitore, Emir Sader, docente dell’Università di Rio de Janeiro, affermò che il presidente aveva adottato politiche conservatrici nella politica sociale, nella riforma tributaria e del sistema previdenziale, oltre a pronunciare discorsi che avevano innescato la smobilitazione sociale delle masse. Arrivò al punto di cacciare dal partito i congressisti che lo criticavano, suscitando la reazione di numerosi intellettuali capeggiati da Noam Chomsky.

Naturalmente nessuno si stupisca che un partito subisca cambiamenti nelle sue parole d’ordine, nella sua politica effettiva, nel suo rapporto con le masse; potrei citare come esempio illuminante un articolo di Aldo Natoli del 1977 che ricostruisce il percorso fatto dal PCI per avviarsi verso il famoso compromesso storico. Tuttavia, prima di inoltrarmi in questa complessa disamina, vorrei sottolineare che non sono alla caccia di errori o di tradimenti, perché sarebbe troppo semplicistico; piuttosto penso che, per comprendere le scelte politiche, bisogna prendere le mosse dall’analisi della situazione complessiva dei rapporti di forza ed individuare con chiarezza quali fossero gli obiettivi effettivamente perseguibili in un certo momento storico.

Riassumendo qui brevemente l’articolo di Natoli e inevitabilmente schematizzandolo, senza avere la pretesa di accostare rozzamente il PT e il PCI, nati in due contesti storici così diversi, credo che tuttavia sia possibile mettere in evidenza un simile processo di scollamento tra la lotta sociale e la lotta politica, che nell’organizzazione di Lula finisce col trasformarsi in mera strategia elettoralistica (come del resto nel PD). Nel caso del PCI, Invece, a partire dall’VIII congresso (1956), la via italiana al socialismo abbandona definitivamente la teoria del crollo del capitalismo, sostenuta in passato, e “prospetta la permanenza dello sviluppo della democrazia come campo generatore del socialismo, nell’ambito degli equilibri della coesistenza pacifica”, proclamata da Krusciov (Natoli 1977: 276). Per sciogliere questo concetto possiamo dire che, riportando sempre le parole di Natoli, “Non ci sarebbero più stati ‘crolli’, la via democratica, anzi adesso la via parlamentare, cessava di essere una scelta tattica sia pure di lungo periodo per acquistare pienamente la dimensione e l’autonomia di una strategia, di una via nazionale, cui era venuto meno il collegamento internazionale e la prospettiva della rivoluzione” (p. 276). In quest’ottica, l’ampliamento della democrazia, non perseguibile nel quadro capitalistico, diventa la direttiva principale che in virtù dell’egemonia operaia tenderebbe verso il socialismo. “Ma – si chiede giustamente Natoli – è possibile un’egemonia operaia senza la liberazione della classe da rapporti sociali e di produzione oppressivi e di sfruttamento?” Evidentemente no e a un grave costo che pesa ancora su noi e che ha dato vita a “Una transizione tutta politica, svuotata dei suoi contenuti sociali” (ibidem), tipica di chi si limita a difendere la nostra pur venerabile Costituzione, convinto che questo sia sufficiente a ribaltare i rapporti di forza esistenti.

Come era avvenuta questa svolta? Nel contesto del mondo diviso in blocchi e convintisi che per un certo periodo non era possibile spezzare quel precario equilibrio, drammaticamente messo a repentaglio dalla crisi dei missili del 1962, sembrava naturale che si potesse procedere in questa direzione, forse ignorando o facendo finta di ignorare gli apparati repressivi che sarebbero intervenuti nel caso di una vittoria elettorale del PCI. Infine, il colpo di Stato contro Allende fu inteso come prova di questa interpretazione che ci condusse al compromesso storico e che fece del PCI una “forza stabilizzatrice” delle istituzioni democratiche e al contempo un apparato di controllo del malessere, della protesta che si manifestava in varie forme dinanzi a questa deriva politicistica.

Tutto questo ci insegna quanto sia difficile valutare l’autentica politica di un partito e i suoi risvolti, anche non voluti, e come in questo ambito i facili entusiasmi, la retorica enfatica non dovrebbero avere spazio, se vogliamo veramente capire qualcosa.


Note
[1] Per approfondimenti si veda: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=594
[2] Il titolo dell’articolo che qui menziono è Lula, la gran estafa (Lula, il grande imbroglio) di Pascual Serrano.
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