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sinistra

La legge di bilancio ai tempi della campagna elettorale permanente e della coperta troppo corta

di Daniele Gullì

Con una lettera scritta il 12 febbraio del 1981 indirizzata al Governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta iniziava quel breve ma tortuoso percorso politico che avrebbe portato ad una delle rivoluzioni istituzionali più importanti ed impattanti della storia della Repubblica italiana: il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro. Da quel momento, non avendo la Banca Centrale più l’obbligo di comprare i Titoli di Stato direttamente sul mercato primario, sarà il libero agire del Mercato dei Capitali a fissare il tasso di interesse sui BTP.

Trentasette anni dopo, con una celebrante manifestazione inscenata il 27 settembre del 2018, l’attuale Ministro del Lavoro, nonché leader della forza di maggioranza del sedicente “Governo del cambiamento”, annuncia dai balconi di Palazzo Chigi, tra bandieroni e festanti colleghi, l’accordo raggiunto nel Consiglio dei Ministri in merito alla quota di deficit del Def per il 2019, fissandolo al 2,4% sul Pil. Da quel momento l’andamento crescente dei tassi d’interesse sui BTP riporterà stabilmente lo Spread attorno ai 300 punti base.

Lontani nel tempo, come nelle modalità d’azione, queste due significative vicende segnano i punti estremi delle parabole che hanno avuto economia e comunicazione nella storia politica degli ultimi 40 anni del nostro Paese.

Da una parte l’austero iter proprio della Prima Repubblica, ove anche decisioni dall’enorme peso economico-sociale potevano essere prese al di sopra e al di là del favore popolare. Dall’altra, la gaia, nevrotica, martellante comunicazione politica di quella che molti, forse non a torto, chiamano Terza Repubblica, ove il costante bisogno di mantenere e rimpolpare il consenso passa per la necessaria pubblicizzazione di ciò che la forza politica di turno fa o promette di fare.

Dopo mesi di invettive nei confronti della Commissione Europea, paventando ipotetici “piani B” e rivendicato ad alta voce sovranità economica, l’Esecutivo di Giuseppe Conte ridimensiona oggi le previsioni del Def portando il deficit al 2,04% sul Pil. Il tiro alla fune mediatico tra le coppie Junker-Moscovici e Di Maio-Salvini ha finito per produrre costanti e dispendiosi livelli di Spread, logorando di fatto i Giallo-Verdi che, sotto il peso delle proprie roboanti promesse elettorali e della minacciata procedura d’infrazione, si ritrovano oggi a procrastinare e ridimensionare buona parte dei dettagli contenuti nella Manovra Finanziaria.

Questa presa di tempo - associata alla tamburellante quanto, nei numeri, poco credibile rivendicata discontinuità con i governi precedenti - svela l’inadeguatezza dell’attuale italiana squadra di governo nel perseguire gli obiettivi preposti e sventolati. Contestualmente cela, di fatto, la volontà dei protagonisti di arrivare sani e salvi alle elezioni europee della prossima primavera. Dopo queste, Salvini potrebbe farsi ingolosire dalla voglia di mandare tutto alle ortiche per presentarsi come leader assoluto del centrodestra, mentre Il Movimento 5 Stelle, mosso dalla necessità di riqualificare un’immagine sporcata dai continui compromessi concessi all’alleato leghista, potrebbe riproporsi nella comoda posizione di forza d’opposizione anti sistema, rispolverando il figliol prodigo Di Battista.

D’altro canto l’accanimento della Commissione Europea nei confronti del Governo Conte altro non rappresenta che l’antipasto della campagna elettorale di quella che giornalisticamente verrà proposta come la sfida tra Populisti-Sovranisti ed Elitisti-Europeisti. Al netto dei grossi limiti tecnici che l’attuale Esecutivo italiano sta dimostrando - in assenza di grandi investimenti certi viene difficile dare credito a previsioni di crescita tanto ottimistiche come quelle sulle quali poggiano le cifre snocciolate nella Manovra - sarebbe ingenuo far finta che i rapporti di forza e gli interessi particolari ed elettorali in seno agli organi esecutivi europei non pregiudichino, almeno in parte, i meri giudizi contabili.

Da Monti in poi i deficit italiani si sono aggirati mediamente attorno al 2,7% sul Pil. Nella stessa UE, in non rare occasioni, Paesi membri hanno derogato ai vincoli enunciati dai Trattati, talvolta sforando anche il fatidico 3%. La sensazione che vengano usati pesi diversi per Paesi diversi non è totalmente priva di ragione. La zavorra rappresentata dal Debito Pubblico italiano - tutt’altro che diminuito con le misure di austerità - non può e non deve rappresentare l’unico parametro macroeconomico degno di essere additato. Gli squilibri della bilancia commerciale tedesca, per esempio, o l’imponente debito privato francese non suscitano lo stesso sdegno mediatico. D’altra parte i Mercati, pretendendo alti tassi di interesse sui BTP, nei fatti ne stanno prezzando il rischio di insolvenza e quindi la fragilità del sistema. Nonostante il bilancio Italiano benefici di storici e strutturali avanzi primari - dall’1% al 3% sul Pil - l’alta quota di Pil destinata al pagamento degli interessi sul debito - attorno 4-5% - finisce per incidere negativamente sul bilancio pubblico.

Per contenere gli interessi passivi sui Titoli di Stato il Governo, non avendo una propria Banca Centrale “dipendente”, né avendo la BCE nel suo Statuto mandato per finanziare direttamente gli Stati, non può intraprendere quelle politiche economiche espansive necessarie ad abbattere il rapporto Debito/Pil. Le leve pubbliche su investimenti, welfare state e fisco, indispensabili per sostenere la Domanda Aggregata, sono finanziabili dai Mercati così a caro prezzo da risultare, nei fatti, inefficaci. Il principio keynesiano per il quale debba essere il potere pubblico a farsi carico di politiche economiche anticicliche espansive per fronteggiare periodi recessivi, dopo essere stato travolto e superato culturalmente dalla “riscossa liberista” di fine Anni ‘70, si ritrova oggi - all’interno della struttura economico-monetaria europea - ad essere sostanzialmente e nella pratica inattuabile: la coperta del bilancio pubblico, da qualunque la parte la si tiri, risulta essere sempre troppo corta.

L’indipendenza della Banca Centrale volta a ridurre la presenza dello Stato nell’economia; l’adozione di una moneta unica a cambio fisso capace di favorire la libera circolazione dei capitali, scaricando, in compenso, gli shock economici esterni sulla svalutazione interna dei salari; il mandato enunciato dallo Statuto della BCE rivolto alla stabilità dei prezzi e non alla piena occupazione: sono queste tutte peculiarità proprie di un sistema a trazione marcatamente liberista. A qualcuno piacerà, ad altri meno. Di certo, quale che sia l’etichetta elettorale affibbiata, le forze politiche che oggi si propongono come antagoniste al sistema europeo, non posso prescindere da una strutturata ed organica critica all’impianto liberista che sorregge la struttura istituzionale europea. I Sovranisti saranno in grado di andare oltre la facile quanto becera narrazione anti migranti, mettendo al centro dell’agenda elettorale un’idea diversa di Politica Economica, più vicina alle rappresentanze democratiche dei singoli paesi e meno oggetto degli umori e dei ricatti dei Mercati? Metteranno al primo punto dell’agenda il superamento di un sistema in cui la Legge di Bilancio è indirizzata dalle agenzie di Rating, mentre la volatilità dello Spread trova il suo limite nella discrezionale indipendenza della BCE e nelle dichiarazioni del Governatore Draghi?

La tornata elettorale che ci aspetta a maggio può seriamente modificare i rapporti di forza in seno alle istituzioni europee. C’è da chiedersi se, al netto degli interessi particolari nazionali e della semantica narrativa elettorale, il dibattito entrerà seriamente nel merito delle contraddizioni insite nel progetto europeo, o se, ancora una volta, la superficialità della contrapposizione propagandistica tra le varie forze politiche non produrrà altro che una asettica ridistribuzione dei seggi al parlamento di Bruxelles.

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