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carmilla

Sartre e il razzismo come sistema di iper-sfruttamento

di Fabio Ciabatti

Iside Gjergji, “Uccidete Sartre!” Anticolonialismo e antirazzismo di un revenant, con quattro scritti di Jean-Paul Sartre, Ombre Corte 2018, p. 118, € 10,00

Possiamo considerare il razzismo come il prodotto di credenze e idee che nascono da una relazione negativa con l’alterità? La risposta appare ovvia per coloro che, partendo da un punto di vista liberal-democratico, cercano di contrapporsi alle falsità palesi di una propaganda che straparla di invasione della patria da parte di orde di extracomunitari coadiuvati da perfidi scafisti. Se, dati alla mano, la calata dei barbari non c’è, quale altra interpretazione dare al razzismo diffuso se non l’ignoranza e la paura dell’altro? Ebbene, secondo Sartre, un’altra spiegazione c’è: il razzismo non è un’ideologia separabile dalla pratica, ma una “violenza che si dà la propria giustificazione”, una “praxis illuminata da una ‘teoria’”. In altri termini, deve essere sempre pensato come “razzismo-operazione”1. Sottigliezze, si dirà. Non proprio, se seguiamo il ragionamento di Iside Gjergji nel suo libro Uccidete Sartre! Anticolonialismo e antirazzismo di un revenant, pubblicazione che raccoglie anche quattro testi del filosofo francese (Il razzismo è un sistema, “Voi siete formidabili”, Una vittoria e “Da una Cina all’altra”).

Possiamo rendercene conto se, insieme all’autrice, mettiamo a confronto la concezione sartriana con quella postcolonial che considera il razzismo sostanzialmente come una formazione discorsiva e simbolica. L’egemonia dell’approccio postcolonial, sostiene Gjergji, ha contribuito alla scomparsa delle posizioni sartriane dall’orizzonte accademico, perpetrando un “omicidio culturalista” del grande pensatore. Per dirla tutta, l’autrice parla anche di un “suicidio” del filosofo francese che ha contribuito alla sua eclisse, con particolare riferimento all’appoggio dato allo stato di Israele a detrimento della causa palestinese. La questione del suicidio è importante e sconcertante, se consideriamo il curriculum sartriano, ma in questa sede ci limitiamo a menzionare per questioni di spazio.

La riflessione di Sartre su razzismo e colonialismo nasce dal suo impegno a favore del popolo algerino nel corso della sua lunga e dolorosa guerra di liberazione, conclusa nel 1962 con l’indipendenza dalla Francia. Impegno che lo rese oggetto di profondo odio: il titolo del libro cita lo striscione di apertura di una manifestazione parigina del 1960; tre sono state le bombe utilizzate per eliminarlo tra il 1961 e il 1962. Secondo il filosofo francese “Il razzismo è un sistema”2 che nasce, intrinsecamente connesso con il capitalismo e il colonialismo, per consentire l’iper-sfruttamento dei colonizzati. Per questo il colonizzato deve essere ridotto a un sottouomo, lasciato marcire tra la vita e la morte, come uno zombie. Tutti i sistemi sono leciti. Il più brutale, la tortura, non ha solo l’obiettivo di estorcere informazioni, ma di annientare l’umanità del colonizzato. Anche in questo caso non possiamo invocare una forma mentis, la disumanità del colonizzatore, come la causa di questo comportamento. “L’inumanità dell’uomo” esiste solo negli incubi causati dalla paura, è un’idea che ci viene inculcata per ridurci all’impotenza, sostiene Sartre. La semplice verità è che “la tortura crea i torturatori”3. Tornando al colonizzato, la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo non lo riguarda … egli è abbandonato senza protezione alle forze inumane della natura, alle ‘leggi ferree’ dell’economia”. In breve, “i coloni sono uomini per diritto divino e gli indigeni sono sotto-uomini. Questa è la traduzione mitica di un fatto preciso, in quanto la ricchezza dei primi si fonda sulla miseria degli altri”4. E tutto ciò vale anche per gli immigrati, sottoprodotto necessario dello stesso colonialismo, definiti da Sartre come “colonizzati interni”.

Il pensiero anticoloniale di Sartre, sostiene Gjergji, è universalista fondandosi su due premesse: primo, il capitalismo è capace di imporre ovunque le sue leggi, condizionando la vita di ogni individuo con la tendenza verso una generale omologazione; secondo, il capitalismo prima o poi provoca una risposta dei lavoratori, così come il colonialismo provoca la rivolta dei colonizzati/lavoratori-sotto-uomini. Secondo Sartre, dunque, i concetti di classe, capitalismo, razzismo e sfruttamento possono essere utilizzati per comprendere le relazioni sociali in ogni luogo e in ogni cultura. Al contrario, prosegue Gjergji, per i teorici postcolonial le categorie universali sono intrinsecamente eurocentriche in quanto negano la diversità e l’autonomia dei soggetti e, di conseguenza, finiscono per privarli delle risorse intellettuali necessarie per l’azione. L’universalismo nega l’eterogeneità del mondo sociale emarginando pratiche o convenzioni locali e, in questo modo, elimina ab origine ogni possibilità di liberazione.

Facciamo un esempio concreto. Perché, si chiede sarcasticamente Sartre, la Francia è così generosa da dare in regalo all’Algeria il suo codice civile? In stile postcolonial potremo evocare la violenza epistemica dell’occidente che vuole imporre universalmente le proprie categorie. La risposta del filosofo francese è differente: “la proprietà tribale era molto spesso collettiva e bisognava sbriciolarla per consentire agli speculatori di comprarla un po’ alla volta”5. In questo modo, inoltre, “si è distrutta l’ossatura dell’antica società tribale senza che fosse sostituita con un’altra. Questa distruzione … all’inizio … sopprimeva le forze della resistenza e sostituiva alle forze collettive un pulviscolo di individui; in seguito … creava la manodopera”6. La Francia poteva dunque mantenere “l’incultura e le credenze del feudalesimo, sopprimendo però le strutture e i costumi che permettono a un feudalesimo vivente di essere, malgrado tutto, una società umana”7. In sostanza, la potenza coloniale “crea le masse, ma impedisce loro di diventare un proletariato cosciente, ingannandole tramite la caricatura della loro stessa ideologia”8.

Questo impedimento, però, si rivela fragile perché, secondo lo stesso Sartre, non si può resistere per sempre tra la vita e la morte: la liquidazione delle strutture feudali finisce per favorire una presa di coscienza collettiva: “nuove strutture iniziano a nascere. È per reazione alla segregazione e nella lotta quotidiana che si è scoperto e forgiato il carattere algerino. Il nazionalismo algerino non è semplice rinascita di tradizioni antiche, di antichi legami: è l’unica soluzione di cui dispongono gli algerini per porre fine al loro sfruttamento”9.

In altri termini, il fattore imprevedibile del sistema è quello umano e ciò costringe il colonizzatore a utilizzare la violenza e, soprattutto, il razzismo per garantire la riproduzione della condizione servile della forza-lavoro. Ma ciò a sua volta determina la crescita della resistenza dei colonizzati rendendo il sistema coloniale insostenibile anche da un punto di vista economico. Possiamo dunque sostenere che ciò che mina il razzismo coloniale è, al fondo, la libertà dell’uomo, condizione che rende possibile la sua ribellione al destino di sottouomo. “In nessun momento – nota Sartre – la volontà di essere libero è stata più consapevole o più forte; in nessun momento l’oppressione è stata più violenta o meglio armata”10.

Il pensiero postcolonial si oppone a questa rivendicazione umanista e universalista. Secondo Arturo Escobar, sottolienea Gjergji, le opposizioni generate dal capitalismo debbono essere intese come espressione di bisogni circoscritti a un particolare contesto geografico, non trasferibili o traducibili altrove. Come sostiene Gayatri Chakravorty Spivak, altra importante autrice postcolonial richiamata da Gjergji, Sartre sarebbe colpevole di arroganza eurocentrica nel momento in cui sostiene che l’altro è sempre conoscibile, purché si abbiano informazioni sufficienti. Di fronte ad accuse di questo genere è difficile non dare ragione a Sartre quando ironizza sul piacere aristocratico di contare le divisioni, sulla sensibilità esibita nel gioco che consiste nel trovare le anomalie11. Come possiamo liberarci dal mosaico di differenze con cui costruiamo l’immagine pittoresca e poetica e al fondo incomprensibile degli altri, dalla posa (nel senso fotografico del termine) che rende l’altro diverso da noi e da sé stesso? Secondo Sartre ripartendo dai corpi, dalle necessità e dal lavoro, riscoprendo la verità materiale che unisce gli uomini.

Ma se questo è vero come spiegare la diffusione del razzismo cui oggi stiamo di nuovo assistendo? Questa dinamica, come in passato, ha a che fare con la lacerazione delle coscienze degli individui, esito delle contraddizioni storiche e materiali in cui le persone sono immerse, sostiene Gjergji. La stragrande maggioranza della popolazione mondiale è costretta a vendere la propria forza-lavoro e per reggere la competizione deve accettare il principio di gerarchia su cui il sistema si fonda, a partire dall’organizzazione lavorativa. Come sosteneva Debord, citato dall’autrice, “per il fatto che questa gerarchizzazione deve restare inconfessata, si traduce in valorizzazioni gerarchiche inconfessabili, perché irrazionali, nel mondo della razionalizzazione senza ragione. È questa gerarchizzazione che crea ovunque razzismi”12.

Questa strutturazione discriminatoria occulta è figlia dell’universalismo borghese che per la sua natura astratta, non è affatto nemico del razzismo. L’unico universalismo possibile del capitalismo, ricorda Gjergji è, l’universalismo della merce che sottomette i diritti dell’uomo alle leggi del mercato producendo ovunque asimmetrie nei rapporti tra individui, classi e popolazioni. Il capitalismo contemporaneo non è nemico delle differenze perché è in grado di metterle a valore, di sfruttarle a proprio vantaggio. Per questo ciò di cui abbiamo bisogno è “un universalisme qui vient, a venire, da immaginare”13, di un nuovo umanesimo che parta dal presupposto sartriano che “l’uomo deve ancora farsi”. E’ lecito ritenere che allo stesso modo la pensasse anche Fanon, l’autore della più veemente denuncia del colonialismo, I dannati della terra, testo per cui Sartre scrisse una celebre prefazione. Fanon, spesso considerato antesignano del pensiero postcolonial, pur denunciando il falso universalismo dell’Europa “che non la finisce di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra”14, non si rinchiude in un angusto particolarismo, ma arriva a sostenere che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”15. Vallo a spiegare ai nostri sovranisti!


Note
  1. Cfr. Jean-Paul Sartre, Critique de la raison dialectique, Gallimard, Paris 1960, cit. in Iside Gjergji, “Uccidete Sartre!”, Ombre Corte 2018, p. 25.  ↩
  2. Cfr. J.P. Sartre, Il colonialismo è un sistema, in I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”, pp. 59-79.  ↩
  3. J.P. Sartre, Una vittoria, in I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”,  p. 94.  ↩
  4. Ivi p.100.  ↩
  5. J.P. Sartre, Il colonialismo è un sistema, in I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”, pp. 64-65.  ↩
  6. Ivi p. 66.  ↩
  7. Ivi p. 72.  ↩
  8. Ivi p. 72.  ↩
  9. Ivi p. 78.  ↩
  10. J.P. Sartre, Una vittoria, in I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”, p.100.  ↩
  11. Cfr.  J.P. Sartre “Da una Cina all’altra”, in I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”, p. 104  ↩
  12. Guy Debord, Il declino e la caduta dell’economia spettacolare-mercantile, cit in I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”, p. 42.  ↩
  13. I. Gjergji, “Uccidete Sartre!”, p. 53.  ↩
  14. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.140.  ↩
  15. Ivi p.137.  ↩
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