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Via della Seta, gli interessi al posto delle chiacchiere

di Dante Barontini

I media italiani – e la “stampa democratica” in particolare – soffrono da decenni di un particolare disturbo bipolare: quello che porta a a semplificare ogni notizia in termini di bene/male o di puro schieramento. Con effetti paradossali che dovrebbero essere evidenti, ma che tutti fanno finta di non notare. Per esempio, Trump è un “mostro” quando si parla di diritti civili negli Usa, ma resta sempre “la nostra guida” quando si parla di geopolitica e relazioni internazionali. Amici o nemici, analisi zero, credibilità idem.

Il disturbo bipolare diventa evidente quando bisogna affrontare il progetto di Via della Seta e dunque i rapporti con la Cina. Qui vengono allo scoperto gli interessi economici reali (la Cina porta investimenti che la borghesia italiana non ha mai voluto fare mai o che lo Stato non può più fare, “grazie” ai trattati europei che impongono tagli di spesa) e le paure alimentate dagli interessi geopolitici di Washington o Berlino.

Leggiamo per esempio questo titolo dell’edizione italiana dell’Huffington Post: “L’ombra della Cina sui porti di Genova e Trieste”. Una copia conforme delle cazzate leghiste sull’”invasione dall’Africa”. Va bene, è una testata statunitense, ma in Italia fa coppia col gruppo Repubblica-L’Espresso. E quindi avvelena anche la testa di molta gente che si ritiene “di sinistra”…

Ma sarebbe sbagliato anche vederla solo in termini di alleanze globali, perché la fine dell’epoca della “globalizzazione” ha scatenato di nuovo la competizione planetaria tra grandi aree economiche e interessi strategici. Dunque ciò che prima era normale ed anche incentivato – l’ingresso di capitali esteri, da dovunque arrivassero – ora è subordinato all’analisi della carta d’identità da parte di una qualche “autorità”. Che però è diventata sfuggente.

Che si parli di Via della Seta o di Teatro della Scala, di cinesi o di sauditi (le cifre cambiano decisamente, dalle decine di miliardi a 15 milioni) la pantomima finto “nazionalista” o finto “umanista” (all’Arabia Saudita vendiamo tranquillamente le bombe costruite alla Rwm di Domusnovas, sapendo che le tirano sui bambini yemeniti…) va avanti con vero sprezzo del ridicolo.

Si sa che gli Stati Uniti hanno lanciato la “guerra dei dazi”, principalmente contro la Cina e contro la Germania (anche se se ne parla di meno). Ma allo stesso tempo stanno trattando con Pechino un mega-accordo commerciale e finanziario. L’ agenzia stampa Xinhua comunica che Yi gang, governatore della People’ s bank of China, sta per liberalizzare il mercato bancario, assicurativo e finanziario cinese agli operatori esteri.

Lo faranno probabilmente anche se l’accordo non dovesse andare in porto (era previsto per fine mese, ma i preparativi per il viaggio di Xi Jinp negli Usa non sono ancora iniziati, complice – con tutta probabilità – il fallimento del vertice vietnamita sul nucleare, tra Trump e KimJong-un). Ma è chiaro che fare accordi di dimensioni colossali con Pechino non è affatto “vietato”; anzi, ci si scontra per chi arriva prima e meglio.

Al confronto, il Memorandum che verrà firmato il 22 marzo – un “accordo quadro”, entro il quale in fututo si cominceranno a inserire progetti concreti – è un “affarino” minore. Ma già così diventa l’accordo espansivo dell’economia più importante che l’Italia abbia mai sottoscritto da quando è entrata sotto la frusta degli accordi di Maastricht…

Quelli che strepitano contro, dunque, stanno lavorando per qualcun altro. Americano o tedesco che sia. Altrimenti non si spiega…

Michele Geraci, sottosegretario grillino al ministero dello Sviluppo Economico, ha dato un’intervista per ricordare, fra l’altro, che “L’Italia ha sempre detto che guardava con interesse a questa iniziativa. A suo tempo l’ex primo ministro Gentiloni ha partecipato al primo forum Belt & Road Initiative a Pechino, a dimostrazione che si tratta di un dossier avviato non da noi ma dal governo precedente. Noi stiamo solo accelerando, perché temo che possa sfuggirci questa opportunità di fare affari con la Cina e di far sì che l’Italia si giochi un ruolo importante nel Mediterraneo.

Questo governo è odioso per molte ragioni, come ben sanno i nostri lettori, ma non è su questo tema che ha senso “incalzarlo”. Se la possibilità di far parte della Via della Seta fosse stata a portata di mano quattro anni fa, per dirne una, il governo Tsipras avrebbe avuto una carta in più da giocare contro la pressione dell’Unione Europea.

Non l’avrebbe colta comunque, perché una scelta del genere sarebbe davvero una rottura* nei rapporti con la Ue, e l’evanescente Tsipras ha dimostrato ad abundantiam di non avere il cuor di leone.

Ma la questione del posizionamento strategico del nostro paese si pone come ineludibile per qualsiasi governo futuro voglia condurre politiche di sviluppo (di qualsiasi tipo), ponendo un argine al rapido declino industriale e alla fuga della produzione verso altri lidi.

E’ un problema di visione che si pone soprattutto a chi si candida a costruire una rappresentanza politica capace di migliorare la situazione della classi popolari e magari rovesciare le priorità.

Detta brutalmente: se all’interno dell’Unione Europea questo tipo di politiche non si possono fare e se fare accordi con gli Usa comporta un incremento della sudditanza geopolitica e militare nei loro confronti… con chi diavolo farem(m)o accordi tali da farci realizzare gli obbiettivi (visto che l'”autarchia” è ovviamente impossibile)?


* Non tutti capiscono subito cosa significa “rottura dei trattati Ue”; qui ne possiamo vedere un buon esempio.
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