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Femminismo per il 99%. Un manifesto

di Daniela Danna

Questa è una recensione del libro di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser Femminismo per il 99%. Un manifesto (Laterza 2019). Lo scrivo sperando che la lettura risparmi ad altre il costoso investimento (14 euro per sole 84 pagine scritte belle grandi) in qualcosa che – come molti fenomeni culturali e politici attuali – è volto a evocare il femminismo solo per infliggergli la coltellata mortale.

Mi vengono in mente innanzitutto una serie di equazioni: lo xenofemminismo sta al femminismo come la fantascienza sta alla storia; il queer sta al femminismo come il pesce sta alla bicicletta; il transfemminismo sta al femminismo come la donne T stanno alle donne (e sarà meglio informarsi sul “transfemminismo”, dato che sotto questa etichetta sembra che debba avvenire la più grande mobilitazione contro il raduno omofobo e misogino del 31 marzo a Verona, il Congresso Mondiale delle Famiglie); il femminismo sta a quel che vogliono le donne come il transfemminismo sta a quel che vogliono le trans; il femminismo intersezionale (così come spiegato da Nonunadimeno/Grramigna) sta al femminismo come l’accettazione della prostituzione delle “sex workers” sta alla violenza della prostituzione. Sono anche venuta a sapere leggendo la loro spiegazione del femminismo intersezionale che la depilazione delle donne che chiamano “cisgender” non è femminista mentre quella delle donne trans lo è! “Cisgender” peraltro significa: “che si riconosce nel suo genere” – quindi di chi stiamo parlando? Solo di quella che vuole sposarsi ed essere sottomessa?

Infine un’equazione molto sbilenca, che è quella del libro in questione: 102 (proporzione di maschi umani sul pianeta) sta a 100 (proporzione di femmine umane) come 1% sta a 99%? È questa infatti la tesi principale del libro, e non quadra affatto. Le tre autrici esortano “le donne e le persone queer” a proporre a tutto il “99%” qualcosa che non è più femminismo.

In buona sostanza esortano ad abbandonare il femminismo per sciogliersi nel “99%”, che sarà anche uno slogan furbo, ma non ha niente a che vedere con l’analisi di classe, da cui pure almeno Arruzza e Fraser tra le tre autrici provengono. Ma forse anche l’analisi di classe è stata da loro abbandonata, come il femminismo: a p. 21 si biasimano i movimenti di destra che: “Vogliono farla finita con il ‘libero commercio’”. Ehm, diamo un calcio anche agli “altermondialisti” dichiarandoli di destra becera e tradizionalista, proprio come fanno i neoliberali, che si sentono avanguardia del nuovo, delle “riforme”?

Inoltre non si capisce perché le “persone queer” (che a spanne parafraserei come “uomini queer”, dal momento che le donne sono già state nominate) debbano essere annoverate tra i soggetti del femminismo, se non per ubbidienza alla moda del momento. O almeno vorrei aver trovato nel corso del libro una definizione di “persona queer”, perché quella di “donna” mi è abbastanza chiara mentre tale definizione, tutto sommato semplice, non lo affatto è per la teoria queer, che contesta il “binarismo di genere”. Prendiamo dunque il toro per le corna e chiariamoci: la dicotomia (“binarismo” non è una parola italiana) tra i sessi è una caratteristica della specie umana, che le “soggettività queer” non possono cancellare, perché sono appunto soggettività, mentre la bisessualità della specie umana è un fatto concreto, oggettivo, reale, vero – tutte parole che infatti vengono contestate dalla teoria queer e dal postmodernismo in generale. Gli intersessuati, come dice la parola, hanno caratteristiche dell’uno e dell’altro sesso. Inoltre negli ambienti queer mancano le prese di distanza – eufemizzo – dalle proposte di legalizzazione del “sex work” (e anche solo una presa di distanza linguistica da questo sostituto della parola “prostituzione” che la fa scomparire dall’analisi) e della surrogazione di maternità, sono invece a favore della somministrazione di bloccanti della pubertà e di ormoni ai minorenni “trans” (non sia mai che quando crescono vogliano rientrare in un “binarismo di genere” e tradire la causa!), e della denominazione come “donne” tout court di chiunque voglia dichiararsi tale, facendo così guadagnare ai maschi l’accesso a tutti gli spazi femminili (vedi https://www.womensdeclaration.com).

Eppure le autrici si dichiarano contrarie al concetto di “proprietà di sé” (p. 41), che porta tra l’altro anche a costruire mercati per i corpi femminili, con la legalizzazione della prostituzione e della vendita di “prodotti”-neonati. Sono distratte? Sono incoerenti? Badano più alla forma accattivante che alla sostanza?

Ritornando alla tesi principale del libro: come sono transitati quei 102 maschi per ogni 100 donne quasi interamente dalla parte delle donne? Osservando fenomeni nostrani e, ancora più, di altri paesi, come gli stupri, i femminicidi, le mutilazioni sessuali, le lapidazioni delle adultere, i rapimenti per gravidanze forzate, insomma tutto il dolente catalogo della condizione delle donne sul pianeta patriarcale, che nei paesi che usano più energia fossile è mitigata dal fatto che le schiave di casa (“famiglie”, appunto – vedi l’etimologia) servono meno, mi permetterei di dubitare che il passaggio del 99% degli uomini dalla parte delle donne sia effettivamente avvenuto.

Il libro inizia bene, denunciando il femminismo liberale che punta a “pari opportunità di dominio”. La formula è efficace (una mia spiritosa amica parlava di “pari opportunismi”), ma dopo l’attacco alle donne delle classi dominanti ci si aspetterebbe da un libro femminista qualche parola anche contro l’oppressione maschile sulle donne tutte. Invece gli uomini sono scomparsi: il capitolo sulla “violenza di genere” (diffuso eufemismo per “violenza maschile contro le donne”) non ha un soggetto virile fino a metà del secondo paragrafo, quando proprio non se ne può più fare a meno (p. 29). Il ricorso all’apparato statale per liberarsi dai maltrattanti è visto come “una burla crudele” perché gli Stati sono anche imperialisti e capitalisti. Ma le autrici davvero credono che sia sbagliato lottare perché la cosa pubblica si occupi di sostenere i centri antiviolenza femministi nel loro offrire opportunità di vita diverse a chi è finita ad amare l’uomo sbagliato? Attendiamo la rivoluzione prima di chiedere denaro e attenzione della forza pubblica per contrastare la violenza che mariti, compagni ed ex quotidianamente praticano (generalmente impuniti, c’è da aggiungere) sulle donne che addirittura dicono di amare?

Insomma, trattasi di un femminismo senza controparte, un po’ come lo sciopero di Nonunadimeno in Italia, in cui le donne sono state chiamate a rifiutare non solo il lavoro retribuito ma anche quello di cura. Nel libro si parla addirittura di “sciopero dell’attività riproduttiva” – anche le gravide vi sono chiamate? E poi chi lo fa allora questo lavoro di cura? Chi accudisce i malati e dà da mangiare ai bambini l’8 marzo? Perché non lo dicono le Nonunedimeno che lo devono fare gli uomini? La controparte è scomparsa. Succede, quando non si vuole più usare il termine “donna” e “uomo” dichiarandosi “contro il binarismo di genere”. In molte città lo scorso 8 marzo si sono registrati tassi di adesione maschili alle manifestazioni inauditi e inaspettati, e c’è chi in Nonunadimeno ha dichiarato che “Gli uomini sono la forza del femminismo”! (Giuro che l’ho sentito alla radio, non al bar.) Ma se le donne scioperano, perché gli uomini sono in piazza invece che a casa a farsi carico del lavoro di cura?

Molto vago è anche il continuo richiamo all’ambientalismo. Chi non è, presumibilmente, a favore della “giustizia ambientale”. Suona bene, ma come si concretizza? E perché non è mai nemmeno definita?

La sintesi di questo libro e di queste pratiche politiche mi sembra dunque: facciamo un nuovo femminismo, uno che non rompa le b.. agli uomini, che così ci approvano, ci sostengono e ci rafforzano. Dario Fo l’aveva scritto negli anni ’70: “Tutti uniti, tutti insieme… ma quello non è il padrone?”. Ragazze, il femminismo è un’altra cosa: è riflettere sui rapporti uomo-donna, quelli sociali ed economici tra i sessi, certo, che rimandano all’altra questione, quella di classe. Ma il focus femminista è sui rapporti intimi: come è socialmente organizzata la vita quotidiana e intima, la famiglia, la sessualità, la procreazione, come il linguaggio nega il femminile, come tutto ciò serve a elevare la figura maschile e sottomettere quella femminile… non mettetevici anche voi, vi prego. Ci si riflette e poi si agisce per cambiarli a vantaggio delle donne, e quindi a svantaggio dell’attuale condizione maschile di dominio su di noi. La fine del capitalismo non necessariamente sarà la fine del patriarcato. E questo “femminismo abracadabra” pare in definitiva solo un ennesimo prodotto delle università postmoderne, dove si diventa bravi a manipolare le parole, e a svuotarle di significato. Abracadabra! Il femminismo che Arruzza, Bhattacharya e Fraser ci avevano mostrato in mano, ora non c’è più.

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