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palermograd

Dio non risponde, e nemmeno la Storia ci sente troppo bene

di Marta Ajello

Città segrete, periferie ai margini del mondo assenti dalle carte geografiche, la cui esistenza deve essere negata. Sono i luoghi dove la Storia ha fallito più che altrove e le catastrofi ecologiche provocate dal sistema impietoso dei profitti che regola i destini dei popoli, producono il loro frutto malato da tenere nascosto. Per vergogna, per ragioni di convenienza politica, per mettere a tacere le coscienze. La storia di questo romanzo racconta un fatto vero di cronaca e si svolge nella Russia siberiana a Musljumovo, un minuscolo ‘villaggio al confine di tutto’ nel cui fiume, il Techla, furono sversate tonnellate di scorie radioattive. Paradigma di ogni luogo in cui scelte non ce ne sono e si crepa così o niente, nel villaggio di Musljumovo lo sguardo di ciascun abitante si adatta all’orrore in modo da non vederlo, una disperata strategia di sopravvivenza dove la fame di vita delle persone resiste a costo di rendersi ‘complici del contagio’. E che cosa può fare Tamara, giovane insegnante di scienze, sguardo razionale e coscienza vigile che invece vede lucidamente tutto quello che per gli altri ‘diventa normalità’? Cosa può fare se non sostituire l’immaginazione alla paura e alla verità, diluire il suo disgraziato bisogno d’amore sballandosi in una discoteca dove ‘ballare è un modo di stare un po’ vivi in mezzo al male’? Anestetizzando ogni desiderio d’amore e di progetto nell’eucaristia del suo corpo offerto a chiunque in occasioni di sesso compulsivo?

Lì a Mujslovo dove si vive come all’inferno, amare è un lusso che non ci si può permettere e Tamara che ha ‘lavorato alla freddezza e al controllo’, si oppone all’intossicazione d’amore, soprattutto quando incontra Vladimir (‘non doveva succedere. Non voleva amarlo. Non voleva amare nessuno’).

Cosa si fa nel mondo in cui Dio che autorizza la morte dei bambini è come ‘il plutonio che si nasconde in ogni cosa e gli umani non possono vederlo’? Si può davvero pregare un Dio che ci fa il male?

Tutto è andato in pezzi nel mondo offeso di Mujslovo, e la realtà, i corpi, le cose, gli animali, le anime, le vite, le case, le memorie, i cervelli, la verità, le fiabe, sono le scorie dell’esplosione avvenuta in una notte del ’57 in cui si è consumata la catastrofe nucleare che farà del piccolo villaggio di frontiera la discarica del pianeta Terra. Nel silenzio di un ‘Dio che non risponde’, tutte ‘le parole sono finite’ e amore, verità, essere umano sono involucri svuotati, relitti di significati perduti che il fiume trascina, misti ai liquami della Storia: qui non si crede più a niente, nemmeno al male.

E però la vita si impone, e però la vita chiede di vivere e Vladimir e Tamara scoprono di aspettare un figlio. Lo sanno che a Mujslovo i bambini nascono senza vescica, malformi o inabili alla sopravvivenza, lo sapevano anche prima. Ma come un veleno che lentamente inquina la logica, a poco a poco Tamara molla gli ormeggi del buon senso, si arrende all’amore, chiude gli occhi e accetta ‘tutto, il mondo e il lago e i pesci morti, il futuro e il passato’, la disfatta del genere umano, la deflagrazione della Storia che vìola persone, animali, fiumi, terre, la natura intera. Accettare il male, accettare l’ingiustizia del mondo, amare lo stesso: i figli ci fanno fare questo.

Mesi d’attesa, trepidazione, speranza e una morte annunciata che infatti si realizza, trascinano infine nella rovina anche la relazione di Tamara e Vladimir. Troppo tardi però, perché l’amore è ormai in circolo nell’anima di Tamara, le impedisce di ritrovare l’equilibrio precedente e chiede prepotentemente un oggetto: l’amore vuole amare.

Se la natura ha subito un guasto, c’è ancora spazio per una maternità acquisita perché se ‘il primo Alësen’ka è nato dall’amore, questo è un Alësen’ka nato dalla fine dell’amore’. Nei giorni della sua disperazione infatti, Tamara troverà nel bosco un misterioso essere inamabile, orrendo, un indefinibile mostro, homunculus e Golem, che le diventa figlio da mantenere in vita, ‘al caldo, al sicuro dal male’, una creatura senza genitali: non è maschio e non è femmina Alësen’ka, perché è tutti i bambini del mondo.

Se Dio non risponde di fronte alla violenza sugli ultimi a cui nessuna Storia darà voce, né la Chiesa ridotta alle sue mute icone, si ripete il miracolo dell’incarnazione: Cristo si fa Vladimir che non vuole ‘essere un dio’, ma solo ‘mani che accolgono e occhi che confortano, piccoli gesti, piccole cose’, compassione insomma; e Cristo si incarna, come in ogni tempo e in ogni luogo, in ciascun corpo esposto alla passione: come quello di Tamara crocifissa nel lettino di detenzione dell’ospedale psichiatrico, Tamara che pure ‘sa che dopo c’è la luce, solo luce, basta aspettare, come Dio ha aspettato con calma che il sangue cadesse dalle mani, dai chiodi conficcati, lentamente, che il cielo si aprisse e tutto il male si fermasse’.

Come si può amare un mostro come il piccolo Alësen’ka che ha la testa a punta, un buco al posto della bocca, lunghe dita inquietanti e perde un liquido sieroso e lustrale che sparge ovunque, a dilavare le colpe del mondo? Agnello sacrificale, capro espiatorio, Alësen’ka deve morire, la sua luce si deve spegnere.

Se anche noi avessimo la luce’, recita un’antica fiaba di Mujslovo: forse la sentiamo anche noi quella nostalgia della luce. Noi che per fortuna viviamo in mezzo alla natura incontaminata e non beviamo il veleno nell’acqua e non respiriamo aria tossica; noi che per fortuna non abitiamo luoghi in cui gli interessi dei potenti della terra decidono la morte degli innocenti; noi che per fortuna non assistiamo mica allo spettacolo di migliaia di persone che muoiono nell’indifferenza di tutti; noi che per fortuna viviamo in luoghi dove non c’è bisogno di chiedersi ‘E poi che diavolo significa umano? Sono umani quelli che permettono che tutto questo succeda?’

Viola Di Grado scrittrice siciliana nell’unico modo in cui oggi si può, si deve essere ‘scrittori siciliani’, capaci cioè di osservare il mondo da un’isola dove la Storia fa naufragio, ci consegna un romanzo terribile e lucente dove il macabro spinto, fino quasi ad esiti barocchi, è tutt’altro che vezzo o esercizio di stile finalizzato a stupire il lettore; ma è semmai l’affresco rimaneggiato in chiave contemporanea di un terrificante trionfo della morte, distopia spostata nell’oggi e non dislocata in un rassicurante futuro ipotetico; distopia trasgressiva, rispetto a tante narrazioni contemporanee, perché animata dalla speranza: è in luoghi come Mujslovo che si impara ad amare, persino l’orrendo Alësen’ka, perché è qui che l’amore è sconfitta.

Cosa succede ‘dopo aver visto il corpo’, ‘dopo aver notato il sangue’, ‘dopo aver visto l’ospedale’, ‘dopo aver spostato il corpo’. Cosa succede dopo che Dio ha disertato il mondo e in ogni uomo ha abbandonato il suo stesso Figlio e in lui tutti i figli al male? Com’è il mondo dopo che Cristo viene lapidato per strada all’uscita di una chiesa dai ragazzini che urlano ‘La Pazza! Tamara la Pazza!’? Cosa succede ‘dopo’? Dopo che Cristo si è incarnato e non sa più pronunciare il Verbo, non sa più narrare parabole ma al massimo ‘squittisce’? Succede che Dio ci chiede finalmente perdono.

Tamara e Vladimir, martiri moderni di una luce in cui bisogna credere, da dover annunciare forse di nuovo, affidano a tutti noi una lettera con parole semplici, come devono essere le parole di un vangelo: ‘Cosa rimane, Vladimir? Almeno il nostro amore può restare?’

Intensità di stile, ritmo ossessivo da vertigine, atmosfere gelide e disanimate, mistica distopia, un romanzo di religiosità altissima.


 
Fuoco al cielo di Viola Di Grado, pubblicato da La Nave di Teseo, 2019
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