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L’Unione Europea cade a vite

di Dante Barontini

In che acque naviga il progetto neoliberista disegnato in un’altra epoca (gli anni ‘80 e ‘90, intorno alla caduta del Muro) e che non riesce a fare i conti con i nuovi tempi?

In pochi mesi di vera emergenza l’Unione Europea ha inanellato batoste su molti fronti, al punto che anche gli opinion maker più militarizzati cominciano a dubitare della capacità di tenuta del marchingegno tecnoburocratico innestato a Bruxelles.

Un breve e incompleto giro d’orizzonte può dare il quadro del disastro.

 

a) Gestione della pandemia

Nella primissima fase la UE è rimasta quasi indifferente, anche quando il precipitare della situazione in Italia doveva costringere tutta Europa a considerare l’epidemia un proprio problema, non isolato alla Cina o al lombardo-veneto (“beh, quei meridionali che non si lavano”, come “i cinesi che mangiano topi vivi” di Zaia).

Poi, una volta preso atto di esserci dentro con tutti e due i piedi, ha reagito secondo i desiderata dei grandi gruppi multinazionali, sia industriali che finanziari: la produzione è continuata, le fabbriche sono rimaste aperte, i trasporti e la circolazione anche, e se proprio si deve chiudere qualcosa che siano le attività commerciali minori, le scuole, i teatri, ecc.

Dappertutto c’è stato lo stesso snervante stop-and-go di mezze chiusure e improvvise “riaperture”, scadenzato soltanto sul tasso di riempimento dei posti di terapia intensiva negli ospedali pubblici – dappertutto ridotti allo stremo, grazie alla politica europea di tagli alla sanità pubblica.

Una strategia incentrata sull’attesa dei vaccini. Che però, una volta pronti, si è dimostrata fallimentare. In tutta Europa non c’è più una sola società, anche privata, in grado di metterne a punto uno efficace. La francese Sanofi, che pure ci ha provato, ha di fatto alzato bandiera bianca.

L’assoluta mancanza di autonomia produttiva in materia di vaccini ha portato alla firma di contratti suicidi con le multinazionali di Big Pharma appartenenti al “campo occidentale”, con aperto boicottaggio di quelli russi o cinesi (e ormai prossimi, anche quelli cubani).

Mai si era visto un contratto tra Stati e società private che non prevedessero penali e sanzioni in caso di ritardo o mancata consegna del prodotto. Il problema è che i funzionari della Commissione Europea che hanno trattato con le multinazionali del farmaco avevano la stessa mentalità dei loro interlocutori, ragione per cui gli è sembrato “naturale” che i contratti avessero quelle clausole.

E’ stato come andare in guerra sperando che prima o poi arrivino le munizioni. E intanto si muore in trincea…

Tre multinazionali Usa e una anglo-svedese hanno fatto fin qui come hanno voluto, privilegiando per molti motivi i paesi di appartenenza (Usa e Gran Bretagna), oltre ad Israele che ha offerto un prezzo triplo per le dosi.

Ciò nonostante, dopo 13 mesi di pandemia e a quattro dall’inizio delle campagne vaccinali, ancora non si provvede a produrre in loco – nelle fabbriche che pure hanno la capacità di farlo! – almeno parte della dotazione necessaria.

Anzi, tutta l’Unione Europea e i singoli Stati si sono opposti, in sede Wto, alla richiesta di India e Sudafrica di liberalizzare i brevetti. Sia mai detto che la UE non fa gli interessi delle multinazionali, a costo di fare strage in casa propria (oltre un milione di morti, fin qui…).

Il risultato è sotto i nostri occhi: vaccinazioni a rilento, alto numero di contagiati e morti ogni giorno, economia che non riesce mai a ripartire nonostante le fabbriche siano rimaste sempre tutte aperte.

 

b) La politica internazionale

Fino a quando la Casa Bianca era occupata da Donald Trump, sia la UE che diversi singoli Stati avevano esibito una certa autonomia, criticando apertamente alcune scelte Usa, anche se senza mai trascendere o ridurre la subordinazione.

Con l’arrivo di Biden anche quel poco di “friccicore” indipendente si è completamente congelato. Le sanzioni contro la Russia e la Cina sono ora accettate con qualche entusiasmo, anche se danneggiano soprattutto i Paesi europei. A maggior ragione quelle contro Venezuela e Cuba. Ed anche su quelle contro l’Iran c’è silenzio ufficiale, ma con la segreta speranza di riportare in vita l’accordo sul nucleare siglato insieme ad Obama.

Ma è nei rapporti con la Turchia che, in queste ore, si sta registrando l’inconsistenza completa di una “autorevolezza europea”. Lo “sgarbo diplomatico” riservato ad Ursula von der Leyen dimostra infatti qualcosa di più della “cultura maschilista” di Erdogan e dei suoi complici dittatoriali.

Il governo turco ha deliberatamente scelto di umiliare il “capo di governo” dell’Unione Europea – la Commissione che von der Leyen presiede equivale a questo ruolo – per ribadire che “non accetta lezioni”, sulla condizione femminile o sui diritti umani o sui curdi, perché tanto sa bene di possedere un’arma che la Ue teme moltissimo – alcuni milioni di profughi, dalla Siria e altri paesi mediorientali, fino all’Afghanistan – e per cui la Ue paga 3 miliardi di euro l’anno affinché restino nei campi turchi.

Lo sapeva bene anche Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo (il coordinamento dei capi di governo della UE), che non ha fatto neanche la mossa di alzarsi o protestare per il trattamento riservato alla sua collega.

Della serie: “della condizione femminile non ce ne frega in realtà niente, anche se ne parliamo spesso, neppure quando riguarda una delle nostre personalità di primo piano; figuriamoci se ci vogliamo impicciare davvero della condizione delle donne turche. O curde”.

Quella di Michel è la stessa faccia fatta da Mario Draghi a Tripoli – dove ora comanda guarda caso la Turchia – quando ha ringraziato per i “salvataggi in mare” i rappresentanti politici degli scafisti libici.

In piena continuità, bisogna dire, con i Minniti e i Salvini che facevano mettere sotto intercettazione giornalisti ed avvocati che “si impicciavano” e disturbavano l’applicazione degli accordi per mantenere nei lager i migranti.

 

c) La crisi economica

Meno evidente, perché circondata da molte asperità “tecniche”, anche la gestione delle conseguenze economiche della crisi.

A tredici mesi dall’inizio, non un solo euro è stato stanziato ed erogato. Il Recovery Fund è appeso all’approvazione di tutti e 27 i Parlamenti nazionali e all’ok della Commissione sui singoli “piani di riforme” nazionali. E’ insomma un meccanismo fortemente condizionale, di lenta applicazione e sottoposto a continue verifiche (quindi a tutti i possibili “incidenti di percorso”).

Ma soprattutto è un fondo misero sia rispetto alle necessità (750 miliardi per un continente con 500 milioni di abitanti), sia a confronto con i bazooka che stanno mettendo in campo la Cina e gli Usa.

Solo Washington sta mettendo a punto un piano da 4.000 miliardi di dollari (per 320 milioni di abitanti). E, cosa ancora più “sconvolgente”, va affermando la necessità un “nuovo paradigma” di politica economica, di portata equivalente al passaggio segnato dalla Reaganomics all’inizio degli anni ‘80.

Il neoliberismo più dogmatico sembra invece dominare ancora nei pensieri e nelle decisioni di Bruxelles. E naturalmente sappiamo bene che a certi livelli non si decide in base ai manuali teorici, ma sotto la pressione di interessi molto concreti.

 

Conclusione temporanea

Potremmo andare avanti a lungo, ma ci sembra sufficiente. Emerge, da tutto questo, che l’Unione Europea è stata disegnata su interessi e visioni teoriche che sono ormai superate dai fatti.

La tecnoburocrazia di Bruxelles è stata a sua volta selezionata, fin dalle università, per applicare il sistema di regole scritto nei trattati. E’ dunque una struttura molto reattiva nello scoprire e segnalare – e sanzionare – ogni scelta che si muove fuori da quei solchi, disegnati appunto in un altro mondo.

Ma non sa cosa fare di fronte ai problemi nuovi. E’ una struttura che vigila sul passato e non prevede nulla. Che riduce continuamente l’ignoto al noto e quindi non trova – non inventa – nuove soluzioni per nuovi problemi.

E’ una macchina obsoleta che non sa prendere le curve e tenere la strada. Il problema è che noi siamo a bordo, ma non siamo noi a guidare. E il pilota è stupido e automatico, oltre che cieco. Ma si sente un dio…

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