Contro lo “smart working”, cioè contro il nuovo lavoro a domicilio
di effesse
Il libro di Savino Balzano, edito da Laterza, intitolato “Contro lo smart working” è un testo utile perché aiuta a demistificare la manipolazione ideologica che le classi dominanti occidentali, per il tramite di accademici, giornalisti e presunti “esperti”, hanno costruito, negli ultimi decenni, intorno al lavoro digitale in generale, e al “lavoro agile” in particolare. Come ricorda l’autore fin dalle prime pagine, tale narrazione tossica contiene la pretesa che queste nuove forme di organizzazione del lavoro sarebbero intrinsecamente connotate da un senso di libertà e favorirebbero la riconquista di tempi e spazi a favore dei lavoratori, nonché la diffusione di un nuovo paradigma di vita potenzialmente in grado di sanare importanti problemi sociali come il traffico urbano, il congestionamento delle grandi città e l’inquinamento1. Da queste trasformazioni, dunque, tutta l’umanità, inclusa l’umanità lavoratrice, avrebbe molto da guadagnare.
Contro questa rappresentazione deformata e deformante, Balzano, aiutato dalla sua esperienza di attivista sindacale, sviluppa un ragionamento che parte dalla presa d’atto di come “lo smart working non sia né l’innovazione del secolo, né una trasformazione inevitabile ed ineludibile nell’organizzazione del lavoro, né un’opportunità per tutti” (pag VIII).
A suo parere, infatti, dietro un’etichetta “accattivante” ed “esotica”, si nasconde la tendenza a rendere il tempo di lavoro sempre più rarefatto e meno rivendicabile, più sfibrato nei suoi diritti e mortificato nella sua essenza2. In questo modo, il lavoro da remoto3 si configura come il tentativo più ambizioso, più estremo, da parte padronale, di superare tutte le garanzie storicamente associate al rapporto di lavoro subordinato e che sempre più spesso sono considerate dal capitale e dalle sue personificazioni fisiche come ostacoli al processo in corso di ristrutturazione produttiva globale (capp. 2-4-5).
L’elemento più pericoloso di questo processo risiede proprio nel fatto che il “lavoro agile”, da modalità lavorativa pensata originariamente come straordinaria, residuale e circoscritta, rischia di trasformarsi, una volta passata la crisi pandemica, in uno strumento permanente volto a favorire un’ulteriore disgregazione ed atomizzazione della classe lavoratrice. In questo scenario, una sempre maggiore individualizzazione delle relazioni lavorative è ciò che può garantire ai capitalisti non solamente una lenta e inesorabile erosione dei diritti ancora in essere, ma anche una sempre maggiore difficoltà dei lavoratori ad organizzarsi collettivamente, a riconoscendosi come classe in sé, prima ancora che come classe per sé4. È attraverso questa modalità, infatti, che “l’uberizzazione del lavoro” esce dall’ambito relativamente ristretto dell’economia delle piattaforme per investire, con sempre maggiore forza, quote crescenti di salariati.
In effetti, non bisogna possedere particolari doti divinatorie per capire che se il rapporto di lavoro è essenzialmente un rapporto di forza tra i contraenti, del tutto squilibrato a favore dei proprietari dei mezzi di produzione, la generalizzazione dello smart working, oltre a scaricare una parte dei costi aziendali sulle spalle dei lavoratori (capitolo 8), mira, nelle intenzioni dei capitalisti, a destrutturare ulteriormente il “mondo del lavoro”, incrementare la precarietà del e nel lavoro, aumentare gli straordinari non pagati e favorire forme di controllo sempre più invasive e lesive della salute, della sicurezza e della privacy personale del lavoratore. Quindi, ha ragione Savino Balzano quando, dopo aver criticato la disciplina giuridica del “lavoro agile”, segnalando tra le altre cose un serie di punti oscuri sui quali le aziende potranno fare leva per favorire la ricattabilità dei lavoratori occupati (ad esempio, assegnando al lavoratore una sede di lavoro lontana dal suo luogo di residenza), propone un cambiamento di nome definendo più propriamente questo fenomeno come “home working” (pag. X), ossia, in lingua italiana: lavoro a domicilio.
Concordo in pieno con tale suggerimento, dal momento che una corretta valutazione delle “nuove” forme di lavoro digitale non può non partire dal riconoscimento di come, in forme sempre mutevoli, il capitalismo del XXI° secolo, nella sua incessante e più acuta che mai, brama di plus-valore, stia recuperando modalità di funzionamento tipiche del proto-capitalismo. In contemporanea, non solo il comando del capitale sul lavoro tende sempre più a centralizzarsi, ma anche a spersonalizzarsi e nascondersi dietro l’ingannevole “neutralità” di un apparato tecnico-informatico-digitale5. Questo nesso tra estrema precarizzazione del lavoro e nuove forme di controllo manageriale, mediate da strumenti tecnologici apparentemente sempre più sofisticati, sarà il principale aspetto da chiarire per offrire al nuovo movimento operaio in gestazione delle analisi adeguate alla fase post-pandemica che (forse) si sta aprendo.
Sarà anche sempre più importante capire come la subordinazione gerarchica del lavoro si modificherà negli anni a venire in relazione tanto ai nuovi modelli di organizzazione del lavoro, di cui lo smart working e l’uberizzazione saranno le punte di lancia più affilate, quanto di strutturazione interna delle imprese capitalistiche, che procedono spedite verso un processo di ulteriore “asciugamento” degli organici e di incremento dei ritmi attraverso un’applicazione, sempre più precisa, dei principi della lean production (la famosa produzione snella di origini toyotiste). In questo senso, il saggio in discussione è un utile contributo per cercare di capire in che modo l’implementazione delle tecnologie digitali andrà a modificare la composizione tecnica della classe lavoratrice6. Fermo restando che a fare luce meridiana sulla natura di questa vecchia-nuova forma di sfruttamento del lavoro salariato sarà l’esplosione delle lotte, come sta già cominciando ad avvenire, per il processo di uberizzazione del lavoro, con le proteste in varie parti del mondo. La volontà del capitale (dei capitalisti di tutte le nazionalità) di utilizzare la “quarta rivoluzione industriale” per rilanciare su scala mondiale un’accumulazione sempre più ansimante ai danni della classe lavoratrice è palese; questa volontà non potrà sfuggire alla resistenza e alla reazione avversa delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi. Rendendo “ancor più oppressiva l’oppressione reale con l’aggiungervi la consapevolezza dell’oppressione”, la critica serve ad aprire la strada alla lotta, all’organizzazione della lotta anche contro il nuovo lavoro a domicilio.
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