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palermograd

Boom Bust Boom

Ovvero i Monty Python contro gli zombie della teoria economica dominante

Scritto da Riccardo Bellofiore*

Il film-documentario di Terry Jones (uno dei Monty Python, regista di molti film del gruppo e responsabile del loro stile “visuale”) e Theo Kocken (economista, docente di Risk Management for Institutional Investors alla VU University di Amsterdam), Boom Bust Boom, è stato proiettato a Bergamo lo scorso 18 maggio, in anteprima nazionale, in una proiezione riservata agli studenti e al personale dell’Università di Bergamo. Queste sono le prime impressioni dopo la visione del film-documentario, richiestemi da Marco Palazzotto (allo stesso Marco e ad Angelo di PalermoGrad debbo lo stimolo iniziale e il contatto con i produttori del film). Riprendono in forma sintetica ciò che dissi al dibattito che dopo la proiezione ha coinvolto anche L. Randall Wray, e che si trova on line, naturalmente in inglese, a questo indirizzo.

Il film ha molti pregi e diventerà senz’altro un classico sulla crisi del 2007-2008 (che pure molti, forse quasi tutti, continuano a chiamare la crisi del 2008), al pari di Inside Job. Ha un ritmo perfetto, ed è visivamente efficace e felice nell’ironia che lo pervade da capo a fondo: anche solo per questo un ottimo strumento didattico. Basti ricordare due battute che si trovano nel film. Una è di Irving Fisher, il teorico forse più noto della teoria quantitativa della moneta: nel settembre 1929 sostenne che il prezzo dei titoli aveva raggiunto un elevato plateau, dove sarebbe comodamente rimasto negli anni a venire; la smentita devastante giunse in un mese. Fisher in qualche modo si rifece l’onorabilità nel 1933 pubblicando un articolo ormai classico sulla deflazione da debiti come caratteristica della crisi finanziaria.

L’altra frase è di Paul Mason, giornalista britannico molto radicale, e ricorda come la teoria economica dominante sia uscita a pezzi dalla crisi: il che purtroppo, benché sia vero concettualmente, non lo è praticamente. E probabilmente a questa permanente capacità della teoria dominante di sopravvivere come uno zombie non è estranea la fragilità categoriale e politica delle teorie economiche alternative.

Ma la qualità e quantità di interviste è notevole. Paul Krugman, Jamie Galbraith, Steve Keen, Andy Haldane, John Cassidy, Steve Kinsella sono solo alcuni nomi: qualcuno si stupirà di trovarci una voce importante come quella dell’attore John Cusack, impegnato su questo e altri fronti. Il film vede soprattutto la presenza cruciale di due “pupazzi” ritornati di attualità dopo la crisi. John Kenneth Galbraith e Hyman Philip Minsky: da non perdere il dialogo con il figlio Alan (il pupazzo di Minsky venne trasportato dall’Inghilterra come viaggiatore pagante; e trovando troppo modesto l’ultimo ufficio di Minsky al Levy Economics Institute, Jones ha deciso che il dialogo con Alan andasse videoripreso in una biblioteca di Manhattan).

Qui però cominciano i limiti del film. La lettura delle tesi minskiane è la più diffusa, ma sbagliata, nonostante l’autorevole discendenza da Charles Kindlerberger: l’alternanza che porta dalla prosperità alla depressione attraverso le “bolle” sarebbe psicologica, quella di euforia e panico (come in effetti si intitolava negli anni Settanta la prima edizione della sua storia delle crisi finanziarie). Ha invece ragione Wray: non abbiamo vissuto un Minsky “moment”; si tratta semmai di un momento lungo mezzo secolo. Bisogna dunque cercare una lettura più strutturale. E in effetti il Minsky più interessante, nonostante il rilievo che pure mantiene la sua ipotesi della instabilità finanziaria (che però, va detto, nel suo modello canonico non dà conto né della crisi delle dotcom né di quella dei subprime e ciò che ne è seguito), è un altro. È il Minsky che dal suo maestro (e primo supervisor) Schumpeter, e da un certo Keynes, recupera una visione marxiana dei cicli lunghi, e la inserisce in una lettura delle economie capitalistiche finanziariamente sviluppate fondata sulla intersecazione degli stati patrimoniali degli agenti. Non c’è da stupirsi: non solo Minsky era figlio di due “socialisti”, e fu egli stesso iscritto all’American Socialist Party; definiva anche Keynes e Schumpeter “conservative Marxists”. Di qui esce la sua lettura del nuovo capitalismo come money manager capitalism (e che io qualifico come il capitalismo della sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito). E di qui la sua proposta in positivo di coniugare New Deal e Keynes in una rinnovata “socializzazione” dell’investimento e dell’economia tutta.

Minsky ha visto bene che la crisi del c.d. fordismo è iniziata non a metà anni Settanta, ma già a metà anni Sessanta. E’ un capitalismo a cui è seguita, come ben vedeva Minsky, una (molto breve) reazione monetaristica, morta nel 1982. Quello che ne seguì non è un capitalismo di ritorno al libero mercato, semmai di una costruzione dall’alto delle soggettività in quello che chiamiamo impropriamente neoliberismo. Ne è venuto fuori un capitalismo in grado di combattere le tendenze depressive al suo interno, di avere una sua relativamente vivace dinamica, quello che altrove ho chiamato keynesismo privatizzato e finanziario. Le ragioni della sua crisi vanno individuate nelle contraddizioni della fase ascendente, e dunque nelle novità del rapporto tra finanza e produzione, che sfuggono a gran parte della stessa economia c.d. eterodossa. Invece di partire da domanda e distribuzione, come fa quest’ultima, si deve partire da finanza e produzione (come ben sapevano Sweezy e Graziani).

Nella parte finale del film emergono due temi. Il primo è quello di una riconduzione della crisi a tendenze naturali dell’essere umano: il punto sarebbe dunque quello di “allargare” e “complicare” la visione antropologica tipica dell’economia dominante (il che è, come ha detto efficacemente a Bergamo Wray, semplicemente “impossibile”). Mi pare questa una tesi non poco limitata e in fondo profondamente sbagliata. È una sorta di inversione della tesi marxiana. Per Marx il capitale ha un “carattere di feticcio”, e questo feticcio è davvero dotato di (potenti) proprietà sociali in determinate condizioni storiche: non si tratta affatto di una illusione; tutt’altra cosa è il “feticismo”, l’attribuire tali proprietà sociali alle cose quali elementi naturali. Nel film, di nuovo, la crisi è attribuita alla natura invariante dell’essere umano, solo che essa non sarebbe così “banale” come ci viene raccontata. Credo che si debba invece partire non dall’individuo o dall’essere umano in quanto tale, ma da una visione “olistica” del sistema capitalistico come caratterizzato alla sua base da relazione di classe e monetarie.

L’altro tema a cui alludevo riguarda l’insegnamento dell’economia. Al termine del documentario sono intervistati una serie di studenti che fanno parte dei movimenti Rethinking Economics e delle varie iniziative per il pluralismo in economia (vi era un piccolo raggruppamento bergamasco presente alla prima). La richiesta di “pluralismo” mi sembra debole. Il punto non è far sentire altre voci, e lasciare poi che gli studenti scelgano : vincerà sempre il mainstream. La questione è tutt’altra, ossia che le posizioni dominanti sono sbagliate. La questione è rivendicare la natura plurale, non il pluralismo, della teoria economica: che è tutt’altra cosa. Keynes combatte Marshall, Schumpeter combatte Walras, Marx combatte Ricardo, tutti riconducendo l’antagonista a “parte” della propria teoria rivendicata più generale, e candidata come nuova ortodossia. La battaglia è questa. E in questa battaglia, oggi, la teoria alternativa è debolissima, in teoria come in politica economica.

* Riccardo Bellofiore è Professore di Economia Politica al Dipartimento di Scienze Economiche  ‘Hyman P. Minsky’ dell’Università di Bergamo, dove insegna Economia Monetaria, Storia dell’Economia Politica e International Monetary Economics. Gli interessi di ricerca includono la teoria marxiana del valore e della crisi, le tendenze del capitalismo contemporaneo, gli approcci endogeni alla moneta, la filosofia dell’economia. Fa parte del Comitato Scientifico dell'edizione italiana delle Opere Complete di Marx ed Engels e dell'International Symposium on Marxian Economic Theory. Oltre ad una monografia su Claudio Napoleoni (Unicopli 1991), ha curato, tra gli altri, volumi su Sraffa (Angeli 1986), von Mises (ESI 1999), Marx (Macmillan 1998, Palgrave 2004 e 2009; manifestolibri 2007; Città del Sole 2009, Editori Riuniti 2009), Luxemburg (Routledge 2009), l'operaismo (Edizioni Alegre 2008), Minsky (Elgar 2001; Bollati Boringhieri 2009), la globalizzazione (BFS 1998; Elgar 1999, Feltrinelli 2002). Ha collaborato a varie riviste, tra cui Quaderni Piacentini, Primo Maggio, Unità Proletaria, Metamorfosi, l’Indice dei libri del mese, Nuvole, Altre ragioni, Vis-à-Vis, la rivista del manifesto, Critica Marxista, Alternative per il socialismo, l’Ospite Ingrato. Con Giovanna Vertova tiene la pagina Facebook Economisti di classe.

Comments

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Christian Dalenz
Monday, 02 November 2015 18:34
Non sono d'accordo che instaurando il pluralismo il mainstream necessariamente vincerebbe sempre; mi sembra che quantomeno qui Riccardo Bellofiore potesse spiegare meglio cosa intenda dire.
Per quanto riguarda il "rivendicare la natura plurale della teoria economica", forse qui c'è uno spunto per un miglioramento dell'attività di Rethinking Economics....
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Christian Dalenz
Monday, 02 November 2015 18:29
"E in effetti il Minsky più interessante, nonostante il rilievo che pure mantiene la sua ipotesi della instabilità finanziaria (che però, va detto, nel suo modello canonico non dà conto né della crisi delle dotcom né di quella dei subprime e ciò che ne è seguito), è un altro. È il Minsky che dal suo maestro (e primo supervisor) Schumpeter, e da un certo Keynes, recupera una visione marxiana dei cicli lunghi, e la inserisce in una lettura delle economie capitalistiche finanziariamente sviluppate fondata sulla intersecazione degli stati patrimoniali degli agenti." Personalmente ricordo che, nella scena del dialogo tra Minsky e suo figlio, Minsky padre fa un accenno alle posizioni coperte, speculative e ultra speculative proprie della generale teoria sull'instabilità finanziaria
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