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gliocchidellaguerra

Il “complotto” anti Putin

di Fulvio Scaglione

Di capolavori politici Barack Obama ne ha fatti pochi. Uno però di sicuro: trasformare l’atteggiamento nei confronti della Russia nello spartiacque della politica mondiale. Di più: è riuscito a portarlo così all’estremo da renderlo un vero confine culturale. Ha ricostruito il Muro, non più a Berlino ma in milioni di cuori e di cervelli.

Basta osservare con un minimo di disincanto quanto sta avvenendo negli Stati Uniti. Laggiù è di fatto diventato un reato incontrare un russo. I giornali, americani ed europei, pubblicano le liste di proscrizione di coloro che, membri della nuova amministrazione o comunque legati a Donald Trump, hanno avuto contatti, per esempio, con l’ambasciatore russo Sergej Kislyak. Perché dovrebbe essere una “colpa” aver incontrato un ambasciatore? Prendiamo il caso di Jeff Sessions, il ministro della Giustizia che, durante le audizioni in Senato, ha negato di aver incontrato esponenti russi. Già è discutibile sostenere che abbia mentito, visto che nel 2016 Sessions ha incontrato gli ambasciatori di Bulgaria, Lituania, Ungheria, Corea, Italia, India, Australia, Polonia, Giappone, Singapore, Gran Bretagna, Montenegro, Lettonia, Canada, Colombia, Taiwan, Ucraina, Russia appunto, Giordania, Cina, Germania, e con alcuni di questi più volte. Ma diciamo pure che abbia mentito. La sua “colpa” è quella, non altra. Aver incontrato un ambasciatore tra tanti altri non può diventare un capo d’accusa solo perché questi è russo.

A dispetto di tutto ciò, la pressione su Sessions è stata tale che il ministro della Giustizia ha dovuto garantire che non seguirà l’inchiesta sulle presunte interferenze russe nella campagna elettorale. In altre parole, il governo è stato mutilato di un legittimo potere di controllo e Sessions giudicato colpevole. Colpevole di aver incontrato un ambasciatore russo, che tra l’altro è una delle persone più osservate, seguite e spiate dai servizi di intelligence degli Usa. Se poi gli incontri dell’ambasciatore russo (con Sessions, con l’ex consigliere per la Sicurezza Michael Flynn, con Jared Kushner, il genero di Trump) erano illeciti e nascondevano trame, perché l’ambasciatore non è stato richiamato dal Dipartimento di Stato o addirittura espulso, quando Obama era ancora presidente?

Questo clima avvelenato, ripetiamolo, è il vero capolavoro politico di Obama. Negli Usa è stato scatenato con il presunto scandalo delle interferenze russe durante la campagna elettorale. Chiamarle “presunte” non è esagerato né partigiano: la documentazione fornita dalle polizie e dai servizi segreti è generica e dice poco.

Certo, l’indagine è ancora in corso, magari domani salterà fuori la pistola fumante, chissà. Ma al di là di hackeraggi e propaganda, la Cia, l’Fbi e gli altri non hanno trovato altro. È stata la Casa Bianca di Obama a insinuare che il Cremlino abbia fatto hackerare la mail della Clinton per farle fare brutta figura presso gli elettori e far vincere Trump.

Ma è davvero così? In realtà no. Le mail pubblicate da Wikileaks e sottratte alla corrispondenza tra la Clinton e John Podesta (storico collaboratore dei Clinton, capo della staff di Bill alla Casa Bianca e poi capo della campagna presidenziale di Hillary) svelano pettegolezzi, rivalità tra funzionari, aspetti del carattere di questo e di quello, insomma glorie e miserie di un gruppo politico impegnato nella battaglia decisiva. Ma nulla, assolutamente nulla che potesse infamare la Clinton.

E infatti questo fu il giudizio che tutti i media diedero allora, quando le mail furono pubblicate. Qualche esempio, tratto da giornali di fama internazionali da sempre molto critici nei confronti di Trump. L’Independent scrisse allora: “In un altro anno elettorale (le rivelazioni di Wikileaks, n.d.r) avrebbero potuto fare sensazione… queste, invece, non fanno che mostrare il dietro le quinte di una moderna campagna elettorale… non si capisce come queste mail possano danneggiare la campagna della Clinton, che sta accumulando un grosso vantaggio su Trump”. E il Guardian, altro giornale inglese: “Non ci sono rivelazioni in grado di cambiare l’esito di questa campagna elettorale”.

Su queste basi più che sabbiose è stato costruito il Russiagate, allo stato dei fatti un “gomblotto” degno di Facebook, che finora ha dimostrato soprattutto una cosa: la russofobia può essere usata come arma politica. Nella miglior tradizione, questo sì, del populismo.

Questa storia non è cominciata nel 2014 ma molti anni prima, nel 1989, quando il presidente Usa George Bush senior lanciò la politica dell’esportazione della democrazia, lanciando l’America alla conquista delle praterie politiche lasciate libere dal crollo del Muro di Berlino e dall’ormai imminente dell’Urss. Nel 2014, però, è successa una cosa importante: in Ucraina la Russia ha reagito con le armi (riannettendo la Crimea e appoggiando la rivolta del Donbass) al soft power americano che aveva ispirato e sostenuto la rivolta di Maidan e la cacciata del governo filorusso di Viktor Janukovich; e in Siria è intervenuta a sostegno del Governo di Bashar al-Assad, contro una rivolta anche in questo caso appoggiata dagli Usa e contro una guerriglia finanziata dagli alleati degli Usa (Turchia, Arabia Saudita, Qatar…).

Qualunque sia il nostro orientamento politico (pro Maidan o pro Donbass, pro Assad o pro ribelli), la realtà non cambia: per la prima volta dal 1989 l’esportazione della democrazia è stata rispedita al mittente.

Uno smacco tanti più importante se pensiamo che il contrasto tra Usa e Russia è in realtà la punta di un contrasto assai più massiccio: quello tra l’Occidente a guida americana e il mondo emergente, capitanato non dalla Russia ma dalla Cina. La Russia è il simbolo, lo spauracchio tradizionale, il babau a tutti noto. Basta osservare le cronache che la riguardano. Viene detto ogni giorno che Vladimir Putin ha “mire espansionistiche” e si racconta con soddisfazione che la Svezia reintroduce la leva militare e la Finlandia riarma. Il che, unito a ciò che si dice e si scrive dei Paesi Baltici, della Polonia e dell’Ucraina, farebbe pensare che la Russia voglia invadere mezza Europa. Gomblotto! E non è male nemmeno l’altra teoria, quello che vede in Trump il “manchurian candidate” (dal film omonimo, con Denzel Washington e Meryl Streep), il candidato preparato dal Cremlino per conquistare la presidenza e quindi gli Usa. Ma chi avrebbe investito su Trump, anche solo un anno fa? Su Trump sbeffeggiato da tutti negli Usa, considerato un fallito, un megalomane, un fesso? Giudicato un perdente senza speranza, a campagna elettorale già iniziata, dal suo stesso Partito repubblicano? Gomblotto!

Tutti i giorni ci sentiamo ripetere che questo è uno scontro tra la democrazia e la non democrazia, tra il mondo dei liberi e quello dei non ancora liberi. Questo sarebbe un argomento valido se noi fossimo portatori di libertà. Ma non è così. Non abbiamo portato libertà in Iraq, né in Siria né in Libia. Non è arrivata la libertà in Ucraina ma un regime inefficiente e corrotto quanto il precedente, solo nostro amico. I nostri alleati più fedeli, soprattutto in Medio Oriente, non sono alfieri della libertà ma oppressori crudeli, anche più di quelli che vogliamo combattere. E quando diamo loro una mano, come facciamo con l’Arabia Saudita nello Yemen, li aiutiamo a compiere atrocità degne dei peggiori dei nostri nemici. Il tutto passando per guerre assurde, che hanno trascinato interi popoli nella miseria. E che, come quelle in Siria e in Libia, hanno incrementato i problemi e i drammi del nostro stesso mondo, pensiamo solo all’Europa e alla questione delle migrazioni.

Quindi non facciamoci fregare. Questa non è una battaglia tra democrazia e dittatura ma una battaglia tra le dittature che piacciono noi e quelle che piacciono agli altri. È lo scontro tra quelli che vogliono cambiare il mondo secondo il proprio piacere e la propria convenienza (gli Usa, noi) e quelli che vogliono conservarlo secondo il proprio piacere e la propria convenienza. Si chiama politica.

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