Referendum: quorum e costituzionalità
di Luca Benedini
Un vero e proprio paradosso inavvertito che va a grave danno della democrazia e dei cittadini
In Italia e in alcuni altri paesi le votazioni sui principali tipi di referendum vengono considerate valide solo se vi partecipa un numero di elettori superiore alla metà degli aventi diritto: quello che in Italia è il cosiddetto “quorum del 50% + 1”.
L’intento originario dei legislatori – cioè il considerare necessaria per dare validità a un referendum una notevole partecipazione popolare – appare in sé e per sé ben comprensibile e forse anche giustificato, ma inopinatamente la specifica formulazione di questo intento adottata nella norma in questione è diventata, col tempo, causa di estreme assurdità. Il “problema” è che generalmente in un referendum a duplice risposta (“sì” o “no”) una delle due risposte implica il mantenimento dello statu quo, mentre l’altra implica un cambiamento rispetto alla situazione corrente. E col tempo ci si è accorti che per le persone orientate a votare per lo statu quo risulta molto più funzionale non andare a votare, unendosi così al numero degli astenuti e mirando a far sì che il referendum non raggiunga il quorum.
In pratica, la regola del quorum fa sì che coloro che sono orientati a mantenere le cose come stanno possano, non andando a votare, usare gli astenuti come se anche questi ultimi fossero orientati in quel modo. Si tratta di un fortissimo squilibrio asimmetrico, che ingiustamente sfavorisce a priori il cambiamento rispetto allo statu quo. Ciò si pone anche in urto con i princìpi fondamentali di equità del voto che caratterizzano innumerevoli Costituzioni, inclusa quella italiana (art. 48: «Il voto è personale ed eguale»), oltre alla “Dichiarazione universale dei diritti umani” (art. 21) e ai suoi trattati applicativi (ad esempio il “Patto internazionale sui diritti civili e politici”, art. 25).
Correggere la distorsione
Una regola alternativa che sanerebbe questo ingiustificato squilibrio, riuscendo nel contempo a conservare pienamente ed esattamente gli intenti originari dei legislatori (come ogni matematico può confermare), è la seguente: considerare vincente in un referendum la risposta che ha ottenuto più voti, a patto che ne abbia ottenuti in numero superiore alla quota del 25% degli aventi diritto al voto.1 Tra l’altro, in pratica si tratta della regola adottata nella Costituzione tedesca a proposito di due dei tre tipi di referendum in essa regolamentati,2 mentre per il terzo tipo non è richiesto alcun minimo di partecipazione al voto (art. 29, commi 3, 6 e 8).
In Italia vi è anche il particolare paradosso che la regola del quorum per i referendum abrogativi è inserita nella Costituzione (art. 75, comma 4). Ciò fa sì che il Parlamento possa correggere questa inopinata stortura solo con una legge costituzionale, più complessa di una ordinaria. Peraltro, alla partitocrazia italiana non è mai interessato sanare questo squilibrio, in quanto la sua persistenza indebolisce nettamente le possibilità dei cittadini di ricorrere alla “democrazia diretta” e di ridurre in tal modo lo straripante potere dei partiti....
Più opportuno, dunque, sarebbe forse ricorrere alla Corte Costituzionale, ponendole questo “strano” problema giuridico che nasce da un equivoco logico-matematico in cui sono caduti – evidentemente senza accorgersene – i “padri fondatori” della Repubblica: un equivoco che ha fatto sì che una norma costituzionale possa essersi di fatto ritrovata in palese ed inconciliabile conflitto con un’altra norma costituzionale, più fondamentale, e con delle norme di diritto internazionale riconosciute e tutelate dalla Costituzione stessa (ai sensi dei suoi articoli 10, comma 1, e 117, comma 1).
Per la qualità della democrazia italiana e per il rispetto dei diritti umani dei cittadini italiani riguardo all’eguaglianza del voto, sarebbe quanto mai opportuno sanare questa ferita normativa che ha già avuto diversi gravi effetti nel corso dei decenni.3 Più presto lo si farà, meglio sarà.