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Un elogio del pensiero critico

di Pier Aldo Rovatti

Pubblichiamo qui l’introduzione di Pier Aldo Rovatti al libro di Beatrice Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Milano 2015

Questo libro di Beatrice Bonato, dal titolo Sospendere la competizione, è un esplicito elogio della filosofia: più esattamente, è un elogio di quell’atteggiamento filosofico che prende il nome di pensiero critico. Merce rara – per dir così – nell’attuale koiné culturale che promuove soprattutto il pensiero unico, quello dei “benpensanti”, di coloro che non vogliono rischiare di trovarsi spiazzati rispetto al trend di una società (neoliberale?) che premia l’individualismo e la competizione di ciascuno contro tutti. Diciamo che si tratta di un “pensiero”, ma in modo improprio: è piuttosto un trucco, un azzeramento del pensare, una sua palese dismissione. Se il pensiero non è un pensiero critico che critica l’esistente (e alla fine mette in dubbio anche la propria pretesa di verità), esso non è un pensiero. Potrà abbellirsi di tutte le aggettivazioni più gratificanti, esso rimane una caricatura, una parodia del pensare, qualcosa come una pigrizia metafisica.

Mi piacciono i libri che già nel titolo parlano chiaro a proposito di ciò che intendono analizzare e discutere. “Sospendere la competizione” è un programma esplicito e insieme oltremodo problematico. È chiarissimo che non è un programma solo conoscitivo: se non lo traduciamo subito in un agire (in un atteggiamento etico e “politico”), abbiamo già compiuto un passo falso e tradito la sua vocazione critica. Cose ben note? Non credo proprio.

Cominciamo con una localizzazione. Beatrice Bonato esercita il suo pensiero critico a partire dalla scuola che è il luogo dove svolge la sua pratica di lavoro in qualità di insegnante. Lì sbatte ogni giorno la testa contro il cosiddetto paradigma della competizione e contro l’uso dilagante delle metafore sportive. Lì vive sulla sua pelle uno scacco che aumenta giorno dopo giorno e che la mette davanti a un bivio: o accettare, accomodarsi in una pratica deprimente, o ribellarsi al trend della misurazione, del supposto merito individuale, della pretesa di quantificazione, ma soprattutto di un’idea di vita come battaglia per emergere o magari per eccellere. Ribellarsi, ma come?

Nelle ultime pagine del libro questo nodo problematico scoppia e l’autrice propone (azzarda?) una strategia della sospensione come “disattivazione” degli effetti di potere implicati nell’idea dominante di vita come gara. Uno svuotamento che però non equivale in alcun modo alla cancellazione del problema e che, anzi, ne è un rilancio. Apertura strategica, che corre sottotraccia lungo tutto il saggio, di cui il lettore può far tesoro per realizzarla – se crede – nella varietà di tattiche cui potrebbe dar luogo.

Ci tornerò alla fine di questa premessa. Prima, tuttavia, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che se il gesto di sospendere (di ispirazione fenomenologica) è un gesto a dir poco problematico in quanto tale, esso verrebbe ridotto a un filosofema un po’ astratto se non si accompagnasse a un’indagine critico-genealogica dell’idea di competizione, cioè al lavoro che Bonato mette in campo nel suo libro, dall’inizio alla fine.

Questo attraversamento genealogico è un vero e proprio studio critico che dalla scena attuale ci riporta indietro fino alla Grecia antica, per farci ragionare su una dimensione culturale che non possiamo buttar via con un colpo di spugna ideologico, ma che non possiamo neppure accettare come qualcosa di naturale e imprescindibile. Veniamo così a trovarci in una forma di paradosso che è necessario scavare senza cedere all’impulso di buttarlo via. Nietzsche, soprattutto, sembra fornirci un appoggio per abitare la doppiezza del competere e per svelare proprio il desiderio di potenza facendocene vedere anche il volto distruttivo.

Ma, insieme a Nietzsche, entra qui in scena una folla di autori e di opere: un percorso prezioso di apporti critici provenienti dal teatro teorico contemporaneo, dal discorso economico-politico, da quello sociologico, da quello psicanalitico, e da altri discorsi, compreso ovviamente quello esplicitamente filosofico, con lo scopo di allargare l’orizzonte critico ma anche di precisarlo.

Eccoci dunque spostati in un luogo diverso: dall’aula al luogo deputato alle ore di studio e di riflessione. E ci sembra quasi di vedere Bonato sommersa da un mare di autori e di libri, selezionati, annotati, pronti a entrare nelle pagine del suo scritto. In ordine di apparizione, e dimenticandone alcuni: Alain Ehrenberg, Dardot e Laval, Žižek, Simondon, Deleuze, Sloterdijk, Nancy, Derrida, Michael Young, Giorgio Agamben e infine Boltanski. Con loro Hobbes, Freud e Nietzsche. Ciascuno di essi trova nel libro uno spazio e un rilievo teorico specifici, nessuna compiacenza per la semplice citazione. A Bonato non interessa infoltire le sue pagine, le preme piuttosto arricchire la problematicità, che risulterebbe perfino eccessiva se non ci fosse ben percepibile una trama che lega tutte le variazioni.

Di fronte al procedere dal paradigma della competizione e al consenso che non manca di ricevere, che sbocco può avere questo percorso di ricerca genealogico che moltiplica i problemi? Mi pare di capire che Bonato invita se stessa e i suoi lettori a tenere conto del fatto che tale paradigma non è sospeso nell’aria, e dunque non è solo il frutto di un dispositivo autoritario che cala dall’alto, ma viene alimentato, anche dal basso, da un certo numero di inedite “passioni” tra loro aggrovigliate.

La gara è dunque sorretta da un godimento effettivo, che non è possibile trascurare né annullare. Per contrastarlo, occorre passarci attraverso: accorgersi che in esso si intrecciano e convivono passioni contraddittorie, elementi disgreganti e distruttivi con elementi costruttivi e potenzialmente aggreganti che nessuna idea di vita può disconoscere.

Lungo tutto il libro questa duplicità viene abbordata, fin dal momento – subito all’inizio – in cui Bonato registra la curiosa presenza di competizione e cooperazione, non come imbroglio ideologico, ma proprio come pratica verificabile. Se questo fenomeno può sembrare un trucco escogitato dal cervello aziendale, esso è anche un fatto da cui è possibile cominciare a disattivare la competizione stessa, togliendole il terreno da sotto i piedi. È come dire che il gioco ha sempre varie facce, non solo quella dell’agon, della gara uno contro tutti, ma anche quella del piacere che nasce dall’affidarsi al caso, al rischio, alla maschera, e che dunque il gioco è anche qualcosa che si regge sul godimento dello stare assieme. L’ora di lezione, per esempio.

Senza introdursi in un’impervia “sociologia dell’amore” o nella pratica paradossale dell’imperativo “diventa ciò che non potrai mai essere” (in contrapposizione al “diventa ciò che sei” di Nietzsche), senza neppure che ci sia subito bisogno di spianare la strada a una “filosofia del dono”, come leggiamo nella condensata conclusione di questo libro, basterebbe soffermarsi con pazienza proprio su quel gesto che Bonato chiama “sospensione”, o più performativamente “sospendere”, e che lei stessa caratterizza come “locale” e appunto “paziente”.

Questa pazienza, o rallentamento dell’impazienza, è forse l’arma più potente a disposizione della filosofia come pensiero critico. Allora, se mettessimo a frutto il lavoro di Bonato, ci accorgeremmo che si tratta di sospendere la competizione nel senso specifico di criticare il paradigma della gara, e quindi di opporvisi nella pratica dell’insegnare, ma che si tratta, anche e soprattutto, di applicare una sospensione critica nei confronti dell’idea comune, ovvia, quasi automatica, di competizione, scoprendo così che essa può essere attraversata, nei gesti quotidiani del docente, riempiendola di un senso non ovvio né automatico.

Disattivare la competizione non significa tentare di eliminarla (con scarsa speranza di successo), ma pazientemente smontarla e decostruirla, cavarne ciò che ha di socializzante, valorizzare questa sua effettiva dimensione rispetto all’elemento distruttivo. Compito difficile, non impossibile.

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