Perle ai porci
di Sebastiano Isaia
Non gettate le vostre perle davanti ai porci,
perché non le calpestino con le loro zampe.
Francesco Borgonovo sulla Verità di ieri ha citato da par suo il noto comunista di Treviri: «In una società comunista, spiegò una volta Karl Marx, la produzione sarà organizzata in modo tale da permettere all’uomo “di fare oggi questa cosa, domani quell’altra”. In una società del genere, io potrei, “la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore né critico”». Vediamo come Borgonovo chiosa la perla marxiana: «Mi ridurrei a vivere una vita senza scopo, cercando di tenermi impegnato in qualche modo». Perle ai porci, verrebbe da dire sulla scorta di certe interpretazioni della «stravagante utopia» marxiana.
La celebre battuta marxiana, che con ironia sconta la ”materialistica” circostanza per cui nessuno è in grado di prevedere i modi in cui gli esseri umani eventualmente liberati dalla maledizione del lavoro capitalistico userebbero il loro prezioso tempo, si trova ne L’ideologia tedesca (1),un capolavoro scritto tra il 1845 e il 1846, pubblicato per la prima volta nel 1932, che invito a leggere a chi volesse farsi un’idea abbastanza precisa di cosa Marx ed Engels intendessero per comunismo.
Chi si è fatto un’idea del comunismo sulla base delle molte versioni volgari di “marxismo” che continuano a circolare, leggendo quel testo rimarrebbe forse sorpreso dalla vera e propria apologia dell’individuo che vi si trova, a testimonianza del fatto che nella società borghese l’individualismo non è che una menzogna (un’ideologia) intesa a celare la reale subordinazione degli individui atomizzati alle bronzee leggi del Capitale. Il marketing pubblicitario e politico (una distinzione puramente formale!) ci vuole convincere che tutto ruota intorno al cittadino, mentre tutti noi, come consumatori, lavoratori, contribuenti, utenti e quant’altro sperimentiamo una ben diversa realtà: ruotiamo sempre più vorticosamente intorno alle esigenze dell’economia fondata sul profitto.
Come ho scritto nel precedente post, in tanti (Santi Padri inclusi) continuano a illudersi di poter in qualche modo imbrigliare, moralizzare, temperare, umanizzare (sic!) la mostruosa Cosa capitalistica, ma 171 anni dopo la stesura del citato testo marxiano non mi sembra che l’umanità ne sia venuta minimamente a capo, anzi! Gran parte delle stesse riflessioni intorno alle opportunità e ai rischi (2) della robotizzazione dell’intera prassi sociale dimostrano come il potere sociale del Capitale sia enormemente cresciuto dall’epoca in cui Marx dichiarò al mondo che lo stesso sviluppo capitalistico rendeva finalmente possibile la fuoriuscita di tutti gli individui dalla dimensione classista del dominio e dello sfruttamento – degli uomini e della natura. Il Comunismo non come generalizzazione della miseria (3), come pensa anche Borgonovo (secondo il quale ciò che ci prospettano i robot «Non è libertà: è l’Urss 4.0.»), ma all’opposto come generalizzazione della ricchezza. Non tutti egualmente poveri, ma tutti ricchi: ricchi di libertà, di umanità, di creatività, di felicità, di possibilità. Solo il negletto individuo dei nostri miserabili tempi può vedere nel lavoro capitalistico una fonte di gioia e di dignità e può pensare il tempo libero umanizzato come tempo inutile, sprecato, noioso, privo di scopo. Scrive infatti Borgonovo a proposito delle “tecnologie intelligenti”: «Le nuove tecnologie, in buona sostanza, libereranno la società dal fardello del lavoro. […] Come i filosofi dell’antica Grecia, gli uomini senza lavoro avranno tempo per dedicarsi all’”ozio creativo”. Saranno tutti riposati, colti, e felici». Una vera tragedia! Tutti gli uomini saranno (potrebbero essere) «riposati, colti, e felici»: occorre assolutamente scongiurare una simile sciagura! Bisogna essere davvero profondamente alienati, reificati e disumanizzati per inorridire dinanzi alla possibilità di una piena libertà umana.
Ci sono uccelli cresciuti in cattività che, se liberati, ritornano subito nella vecchia gabbia, semplicemente perché non hanno conosciuto un altro mondo, non hanno sperimentato un diverso modo di vivere. Anche noi non siamo abituati alla libertà e allo spazio aperto. È questa la vera tragedia che ci tocca vivere, la tragedia di una condizione umana lacerata dalla tensione, via via crescente, generata dall’attualità del Dominio e dalla possibilità della Liberazione, una tensione che si manifesta in mille modi, spesso dolorosi e insospettati, nonché fonti di reddito per molte figure professionali.
E qui ritorniamo alla battuta marxiana, la quale si inseriva appunto in una riflessione intorno alla possibilità/necessità di superare la condizione disumana degli individui in regime capitalistico, in vista dell’«individuo totale» («onnilaterale»), attraverso la «liberazione di ogni singolo individuo». Infatti, scriveva Marx, «nel mondo attuale il libero sviluppo dell’individuo completo è reso impossibile» (p. 254). Da che cosa? Dalla divisione degli individui in classi sociali e dalla divisione sociale del lavoro: «Se gli operai, per esempio, nella loro propaganda comunista affermano che la vocazione, la determinazione, la missione di ciascun uomo è di svilupparsi sotto tutti i punti di vista, di sviluppare tutte le sue capacità, per esempio anche la capacità di pensiero», in ciò occorre vedere la loro intenzione di andare oltre «l’individuo come è, mutilato a sue spese dalla divisione del lavoro e sussunto sotto una vocazione unilaterale. […] La realizzazione universale dell’individuo cesserà di essere rappresentato come ideale, come vocazione, ecc., solo quando l’impulso universale che sollecita le capacità degli individui a svilupparsi realmente, sarà passato sotto il controllo degli individui come vogliono i comunisti» (p. 291). Come già detto, oggi gli individui sono, a vario titolo e a diverse gradazioni, sotto il pieno controllo del Capitale, un controllo che si fa di ora in ora (e forse di minuto in minuto!) sempre più globale e totalitario. E difatti, nel robot è sbagliato («feticistico») vedere una macchina che “ci ruba” il lavoro, bensì, per dirla sempre marxianamente, «capitale costante» in grado di rendere più produttiva di plusvalore (prim’ancora che di “beni e servizi”) la capacità lavorativa sottoposta a scientifico sfruttamento.
«Le macchine», conclude scoraggiato Borgonovo, «non si limiteranno a cancellare la fatica, ma cancelleranno pure il lavoro: benvenuti nella quarta rivoluzione industriale. Che fare, dunque? Il dibattito è in corso, ma è in forte crescita la corrente di pensiero che auspica la “fine del lavoro”. Il primo a occuparsi a fondo della questione fu, nel 1995, Jeremy Rifkin. Egli teorizzò l’avvento di una era di “post mercato”, in cui i lavoratori inutili sarebbero stati drenati verso il terzo settore, cioè il volontariato, e retribuiti tramite “salari fantasma”. Di fatto, tutto ciò sta già avvenendo. Oggi, anche in Italia: pensate a quanti giovani (stagisti, assistenti universitari, apprendisti) lavorano senza percepire un regolare compenso. Tutti costoro sono vittime dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione sregolata che costringe gli umani a competere con i robot, una sfida persa in partenza. Ed ecco la soluzione offerta dai guru della Silicon Valley e da una bella fetta dell’intellighenzia progressista. Constatato che la tecnologia cancella il lavoro, essi suggeriscono che la risposta non dev’essere fermare la tecnologia. Bensì spingere ancora di più sull’innovazione, in modo che il lavoro sia cancellato una volta per tutte. Come si manterranno allora le persone? Semplice: con un sussidio statale, un reddito di cittadinanza, magari finanziato proprio tassando i robot, come ha proposto la divinità digitale chiamata Bill Gates». Detto che, in regime capitalistico, la tecnologia non elimina semplicemente il lavoro (salariato, cioè mercificato e sfruttato), ma, come si diceva sopra, in primo luogo essa rende più produttivo il «lavoro vivo» residuale, per cui la «fine del lavoro» di Jeremy Rifkin appare ai miei occhi un modo raffinato di nascondere, per un verso l’aumentato tasso di sfruttamento dei lavoratori e, per altro verso, il loro deprezzamento (la svalorizzazione della capacità lavorativa sul mercato del lavoro è un fenomeno a cui concorre anche la globalizzazione capitalistica, la quale mette a diretta e immediata concorrenza i salariati di tutto il pianeta); detto questo, non necessariamente l’umanità è costretta a scegliere tra le diverse opzioni capitalistiche, più o meno realistiche e chimeriche, più o meno di “destra” (liberiste) o di “sinistra” (stataliste) presenti sul mercato delle idee e delle proposte politiche. Dite che sto pensando alle perle di Marx, alla sua «stravagante utopia»? Lo avete detto voi!
La tassa sui robot di Bill Gates e i «robot umanoidi a cui l’Ue pensa di concedere diritti», mi hanno riportato alla mente (che parola impegnativa!) quanto scrisse una volta il giovane Marx a proposito dei cani: «L’imperativo categorico [è] rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono meglio raffigurare che con l’esclamazione di un francese di fronte ad una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come uomini!» (4). Poveri robot!