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vocidallestero

ExIT: riflessioni di un mainstreamer

di Alberto Bagnai

Traduciamo qui le riflessioni  espresse in inglese dal  prof. Bagnai sul suo blog Goofynomics a commento e precisazione dell’articolo pubblicato di recente sul Financial Times, in cui è stata riportata in sintesi una sua lunga conversazione col corrispondente da Roma dell’importante giornale economico-finanziario del Regno Unito

Alcuni giorni fa ho avuto una lunga conversazione con James Politi, il corrispondente da Roma del Financial Times. Lui ha fornito un resoconto imparziale della nostra conversazione qui  (e qui tradotto in italiano su Vocidallestero, ndt) e questo già merita un applauso, considerando sotto quale pressione stava lavorando. Ovviamente, molti aspetti della nostra conversazione sono stati omessi, ma il succo del messaggio rimane. Nella mia esperienza questo è abbastanza inusuale, specialmente nei media italiani. Non farò menzione degli aspetti omessi, ma desidero aggiungere alcune sfumature perse nella traduzione (in gran parte a causa mia).

La più importante riguarda le mie affermazioni in merito ad “aver detto queste cose per sette anni ed essere adesso diventato un mainstreamer”. Queste sono state esattamente le mie parole, ma forse vale la pena di aggiungere una precisazione: come sanno bene i lettori del mio blog, il mainstream economico è sempre stato molto scettico riguardo l’euro. Già dal 2011 segnalavo l’opinione mainstream qui , nel mio stile fiorito, sulla base di questo paper , che risulterà più accessibile ad un pubblico internazionale. Se le mie affermazioni sembrano ancora plausibili nel contesto dell’estremamente provinciale discussione in corso in Italia, alla luce del dibattito scientifico è esattamente il contrario: i fautori dell’euro non sono mai stati mainstream nella letteratura scientifica, e quasi nulla di ciò che ho detto durante gli ultimi sette anni è originale. Casomai è tanto più increscioso che un tale coraggio fosse necessario per dire cose così evidenti, ma questa è un’altra storia.

Quanto alla mia affermazione che “chi nega l’evidenza sta rendendo un disservizio al paese”, vorrei aggiungere poche parole che devono essere sfuggite a Politi: “perché se l’euro sopravviverà o crollerà potrebbe non dipendere interamente da noi”. Detto altrimenti, nel sostenere l’irreversibilità dell’euro, la classe dirigente, rappresentata nell’articolo da Padoan (già mio insegnante e collega all’Università Roma I), Taddei e Codogno, non fanno che confessare la loro incapacità di gestirne la fine, che potrebbe avvenire in conseguenza di un forte shock politico o finanziario. Non si tratta di un giudizio sulla loro statura intellettuale, è solo la conseguenza di quella che Giandomenico Majone chiama la “filosofia politica di ottimismo totale” su cui si basa l’intero processo di integrazione europea. Questa filosofia si rivela oggi controproducente perché impedisce alla classe dirigente di studiare eventi da loro ritenuti impossibili. Se studiassero tali scenari, la cosa potrebbe trapelare, ed il sospetto nascerebbe tra gli elettori che un altro mondo sia possibile, infrangendo così il principio del TINA (there is no alternative) dell’integrazione europea. L’unica certezza che abbiamo sull’uscita dall’euro è che sarà gestita da persone che sono state in qualche modo obbligate ad essere incompetenti dalla loro stessa fallace retorica politica.

Inevitabilmente, ciò causerà sofferenze nel breve periodo, seguite da una ripresa nel medio periodo (dopo uno o due anni). Nessuno lo nega e, ancora una volta, non è un’idea mia: è nella letteratura scientifica. La constatazione che l’aggiustamento dopo un crollo valutario incontrollato sia generalmente a “V” non è il prodotto della mente di un eccentrico, marginale professore di provincia. È confermato dalla letteratura scientifica recente: lo studio più esaustivo è “Output recovery after currency crises ”, pubblicato da Sheida Teimouri e Taggert Brooks su Comparative Economic Studies.

Sull’altro fronte, non ho mai trovato prove oggettive che forti svalutazioni diano luogo ad una caduta dei salari reali. Dai dati emerge che forti svalutazioni non sono normalmente seguite da periodi di forte inflazione, e di conseguenza non vi è nessuna caduta dei salari reali, come ho dimostrato qui . Anche su questo punto la letteratura scientifica fornisce numerose spiegazioni sul perché debba essere così (la più convincente, di Ariel Burstein, Martin Eichenbaum e Sergio Rebelo su NBER working papers riguarda le importazioni di sostituzione). C’è anche un esempio lampante proprio del contrario: quello che gli uomini delle istituzioni sembrano trascurare è il fatto che l’Italia abbia subito una forte svalutazione (circa il 30%) tra il 2014 ed il 2015, quando l’euro ha perso terreno rispetto al dollaro americano. Conseguentemente, l’inflazione è calata (invece di salire), il che in linea di principio avrebbe dovuto dare impulso ai salari reali. Invece, i salari nominali sono stati tagliati dalle politiche di “svalutazione interna”, come indicato dall’Eurostat . I salari reali, ossia il rapporto tra salari nominali e prezzi, sono caduti non a causa di un aumento nel denominatore, ma per il calo del numeratore. In altri termini, mentre non vi sono elementi per ritenere che i salari reali diminuirebbero in caso di collasso dell’euro, abbiamo invece le prove che sono effettivamente scesi al fine di difendere l’euro tramite politiche di svalutazione interna.

Le lodevoli preoccupazioni di Taddei per i salari delle classi meno abbienti sono dunque totalmente prive di qualsiasi supporto da parte di elementi fattuali o dalla scienza economica prevalente, il che suggerirebbe o che Taddei non sia ragionevole (cosa che, da economista mainstream, devo escludere a priori), o che stia difendendo gli interessi di qualcuno. Le strette relazioni tra il suo partito ed il sistema bancario italiano potrebbero fornire qualche indizio in merito.

Un’ultima osservazione: il fatto che “la svalutazione sarebbe contenuta” non è una mia opinione personale, ma una constatazione comune a tutta la ricerca economica disponibile. Studi recenti stimano il disallineamento medio della moneta italiana in un intervallo compreso tra 2.35% (Makram El-Shagi, Axel Lindner, Gregor von Schweinitz nel Review of International Economics ) e -1% (Cedric Durand e Sébastien Villemot in un working paper di Sciences Po ). Sorpresa! Mentre gli uomini delle istituzioni parlano di una catastrofica svalutazione al 30% (senza spiegare perché l’ultima nel 2015 è passata totalmente inosservata), esiste anche chi stima che una nuova valuta italiana addirittura si apprezzerebbe (anche se minimamente).

Un avversario più astuto (finora non ne ho trovati, quindi devo fare io stesso l’avvocato del diavolo) potrebbe allora chiedere: “Va bene, l’Italia registra attualmente un avanzo delle partite correnti. Un’eventuale uscita potrebbe non rivelarsi una catastrofe per la sua moneta, ma allora perché uscire adesso che le cose stanno migliorando?” La risposta, caro collega, sta soffiando nel vento da Bruxelles: rispetto al 2009 le cose staranno anche andando meglio, ma non abbastanza. Con un tasso di disoccupazione giovanile attestato intorno al 40% ed un appiattimento storico della produttività del lavoro, il governo italiano è impossibilitato dalle regole europee a fare quegli investimenti che sarebbero indispensabili per stimolare la produttività e l’occupazione. Se decidessimo di attuare tali politiche, che tutti convengono essere necessarie, all’interno dell’euro, presto o tardi l’Italia incorrerebbe in un vincolo di bilancia dei pagamenti  e la BCE finirebbe col ricattarci come ha fatto con la Grecia, solo per imporre delle regole che non portano a nulla se non ad un disastro già previsto. L’esigenza di allentare questo capestro monetario è in primo luogo politica. Prima si prende coscienza di questo semplice fatto, minore sarà il danno per tutti i partecipanti in questo gioco a somma negativa.


Traduzione di Margherita Russo
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