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eticaeconomia

Lavoro, sviluppo e riproduzione

di Roberto Romano

Roberto Romano esamina il problema dell’orario di lavoro in relazione alle trasformazioni strutturali del capitalismo. Romano documenta la storica tendenza dell’orario di lavoro a ridursi e sostiene che nei paesi in cui tale tendenza è stata più marcata la crescita del PIL e della produttività è stata maggiore. Romano, inoltre, sottolinea l’importanza del tempo libero per permettere ai consumatori di apprendere come utilizzare beni e servizi a maggior contenuto tecnologico e, dunque, per sostenere la domanda e il processo di sviluppo

Politica economica, domanda e orari di lavoro. La crisi economica intervenuta nel 2007- le cui tracce sono ancora oggi ben visibili in quei numerosi paesi dove il PIL è al di sotto del livello di 10 anni fa – riflette una crisi di struttura (paradigma) della società (P. Leon, Il capitalismo e lo Stato, Castelvecchi, 2014, pp. 11-12), a cui non è seguita, diversamente da altre grandi crisi, la frattura con la così detta scienza normale e un cambiamento negli orientamenti fondamentali della macroeconomia (A. Roncaglia, in Moneta e Credito, Vol. 64, 2011). In particolare dominano ancora luoghi comuni che condizionano la soluzione dei problemi. Tra questi possiamo ricordare (1) gli orari di lavoro che a seconda degli interpreti sono declinati in “si lavora troppo” o si “lavora troppo poco”, (2) la tecnologia che sostituirebbe lavoro per alcuni e/o creerebbe nuove opportunità di lavoro e crescita per altri, (3) la produttività del lavoro e del capitale trattati come pura ingegneria economica (R. Romano e A.M. Variato, in Moneta e Credito, vol. 69, 2016), vanificando o semplificando le relazioni sociali che condizionano la produttività del capitale e del lavoro. Su questo ultimo aspetto è indicativo il modello interpretativo utilizzato dal mainstream; questo modello esclude esplicitamente il mutamento qualitativo del capitale – a livello di impresa – determinato dalla anticipazione della domanda che segue la legge di Engel, rimuovendo il contenuto sociale del capitale e del lavoro (R. Romano e A.M. Variato, cit.).

La complessità della società e la sua organizzazione evolvono nel tempo; gli orari di lavoro per addetto sono uno specchio abbastanza rappresentativo del cambiamento organizzativo più o meno legato (determinato) dall’approfondimento nell’uso della tecnologia, la quale richiede competenze da parte di chi la usa, mentre l’accumulo di conoscenza alimenta i cambiamenti istituzionali necessari nel campo dei diritti di proprietà, degli orari di lavoro e degli stili di vita. Diversamente sarebbe incomprensibile la storica riduzione delle ore lavorate per addetto. Alla fine, la riduzione degli orari di lavoro si configura come (1) uno strumento prezioso di politica economica e (2) una misura delle ambizioni della società, la quale cambia assieme al reddito e alla produttività.

Se consideriamo alcune suggestioni di N. Rosenberg (Dentro la scatola nera. Tecnologia ed economia, il Mulino, 2001 [1983]), domanda e offerta sono due facce della stessa medaglia, tanto più che la crescente complessità tecnica dei beni e servizi consumati rende necessario un tempo di apprendimento non inferiore a quello richiesto dalla tecnica utilizzata nei processi produttivi. La riduzione degli orari di lavoro, quindi, combina sostenibilità sociale e sostenibilità della crescita economica. La sostenibilità economica della riduzione degli orari di lavoro, ovviamente, presuppone crescita economica (produttività) e capacità di governo dello sviluppo; quanto più il profilo dell’una e dell’altra sono guidati da una politica economica attenta al benessere collettivo, tanto più il tempo liberato dal lavoro diventa strumento di politica economica e di sostegno alla domanda aggregata. Senza questa sequenza sarebbero inconcepibili lo sviluppo capitalistico e la dinamica (relazione) tra salario e benessere.

Sebbene il cambiamento quali-quantitativo dei consumi sia associato al reddito degli individui, in realtà l’articolazione dei consumi ha delle caratteristiche sociali più pregnanti (P. Leon, Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica, Boringhieri, 1965, pp. 133-149). Come già ricordato, al crescere del reddito si consumano non maggiori quantità di beni ma beni diversi. L’attuale sviluppo capitalistico e il livello (grado) di conoscenza incorporato nella produzione-domanda di beni e servizi non potevano essere sostenuto soltanto con l’aumento dei salari, comunque calati nel corso di questi ultimi 20 anni (M. Franzini, M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza, 2016); era necessaria una ri-organizzazione del tempo produttivo e ri-produttivo. Alla fine tempo e salario sono due facce della stessa medaglia.

I beni di consumo non solo hanno un contenuto tecnologico più alto e, intrinsecamente, un valore economico maggiore rispetto a quelli di prima della rivoluzione tecnologica, che possiamo far risalire al 1980 (S. Ferrari, Società ed economia della conoscenza, Mnamon, 2014; R. Romano, note bibliografiche, Moneta e Credito, 2014, pp. 483-488) ma implicano anche un coinvolgimento maggiore del consumatore. In altri termini, senza un adeguato tempo (attenzione) dei consumatori sarebbe inconcepibile l’acquisto di alcuni beni e servizi.

Orari di lavoro e produttività. Lasciando sullo sfondo il lavoro ri-produttivo che meriterebbe una attenzione e uno studio particolari, il tempo dedicato al lavoro dagli individui potrebbe essere un ottimo indicatore di benessere della società. In altri termini, se per soddisfare i nostri bisogni sono necessarie meno ore di lavoro per addetto, tutta la società ne guadagnerebbe in termini di reddito, relazioni e benessere (collettivo e individuale). In effetti, gli Stati che hanno ridotto gli orari di lavoro in misura più accentuata, sono anche quelli che hanno registrato le migliori performance in termini di crescita di PIL e produttività, unitamente a una intensità tecnologica degli investimenti particolarmente elevata nel rapporto GERD-Investimenti delle imprese (S. Lucarelli, D. Palma, R. Romano, in Moneta e Credito, 2013).

La prima e non sorprendente osservazione è legata alla storica riduzione degli orari di lavoro. Sebbene molti “quotidiani” (nazionali) mainstream si affannino a descrivere il lavoratore italiano come “fannullone”, oppure restio a lavorare quanto necessario per far crescere il reddito del Paese (L. C. di Montezemolo, quando era presidente di Confindustria, ha sostenuto che “in Italia si lavora troppo poco e in troppo pochi: ogni cinque anni di lavoro se ne perde uno rispetto agli Usa”; La Gazzetta del Mezzoggiorno.it, 2006), in tutti i paesi considerati gli orari di lavoro per addetto diminuiscono; semmai sorprende la lentezza di alcuni paesi. In Germania si lavoravano 1.528 ore annue per addetto nel 1995 contro le 1.371 del 2015; in Francia si passa da 1.605 a 1.482; in Spagna da 1.755 a 1.691; negli Stati Uniti si passa da 1.844 a 1.790; in Italia da 1.856 ore del 1995 a 1.725 del 2015, cioè nel 2015 un addetto italiano lavora 354 ore in più di quello tedesco, 243 ore in più di un lavoratore francese; 34 ore in più di un lavoratore spagnolo. Il grafico di cui sotto mostra i livelli degli orari di lavoro in alcuni paesi e dà conto della loro tendenza storica alla riduzione.

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Se guardiamo invece al PIL per ora lavorata (tra il 1995 e il 2015), si osserva che tutti i Paesi hanno migliorato la produttività, ma non della stessa misura: facendo 100 il 1995, la produttività oraria in Germania e Francia arriva a 125, in Giappone a 126, in Spagna a 114, in Italia a 106. In altri termini l’Italia matura un gap di 19 punti rispetto alla Germania e alla Francia, 20 punti rispetto al Giappone e 8 punti rispetto alla Spagna. Ciò da conto della minore crescita aggregata dell’Italia rispetto alla media europea, così come di altri Paesi di area OECD.

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Con le informazioni statistiche disponibili possiamo combinare la produttività e gli orari di lavoro. Per comodità utilizzeremo il PIL per ora lavorata e l’orario medio annuo per dipendente (1995=100) di Germania e Italia. Questo confronto viene effettuato di frequente perché consente di misurare la convergenza (divergenza) del nostro Paese verso una realtà economica che continuiamo a definire prossima e/o simile, e perché le caratteristiche sociali e sindacali rendono l’orario di lavoro per dipendente in Germania più omogeneo al nostro rispetto ad altri paesi.

Il risultato non è sorprendente in assoluto. In Italia la produttività è più bassa di quella tedesca, così come gli orari di lavoro annui sono più lunghi, ma la divergenza dà conto dello stato di salute complessiva del sistema economico nazionale.

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Da un lato sembra evidente la relazione tra produttività e orari di lavoro, dall’altra si osserva come e quanto il nostro Paese non possa semplicemente ridurre gli orari di lavoro per “distribuire” lavoro disponibile. Senza una adeguata produttività e, quindi, specializzazione produttiva è difficile non solo ridurre gli orari di lavoro, ma anche crearne di nuovo.

Per concludere. La riduzione dell’orario di lavoro deve essere assolutamente accompagnata da una buona politica economica e, in particolare, da una buona politica industriale che rimane fondamentale per sostenere lo sviluppo quali-quantitativo di un Paese. Inoltre, dal 2007, la crescita dei beni ad alto contenuto tecnologico è significativamente più alta dei beni a medio e basso contenuto tecnologico. Sebbene per alcuni Paesi la riduzione degli orari di lavoro possa anche essere sufficiente per compensare la produttività, per altri Stati il ritardo nell’adeguamento degli orari di lavoro denota un ritardo della politica economica o, per altri versi, dell’assenza di una politica economica coerente con le trasformazioni quali-quantitative del capitalismo.

Indiscutibilmente la lotta per la riduzione degli orari di lavoro della sinistra e del sindacato, nel loro insieme, è un passaggio fondamentale per alimentare, sostenere e guidare un processo produttivo sempre più high tech intensive. Da questo punto di vista la sinistra e il sindacato sono istituzioni macro-economiche molto più lungimiranti dei capitalisti. Se il tempo è fondamentale per una impresa, lo è anche per i consumatori che devono dedicare più tempo ad apprendere come utilizzare beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico.

In conclusione, gli orari di lavoro sono un indicatore della specializzazione produttiva e delle aspirazioni della società. Il peso specifico dell’Italia nel consesso europeo e internazionale può essere desunto anche dal confronto tra i nostri orari di lavoro e quelli dei paesi che hanno provveduto, di recente, a ridurli.

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