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vocidallestero

Le vere ragioni del deficit commerciale USA con la Cina

di Michael Pettis

Su Bloomberg, l’economista Michael Pettis, in occasione dell’incontro tra il presidente USA Trump e quello cinese XI Jinping e delle discussioni sul deficit commerciale americano, chiarisce che oggi gli squilibri commerciali più che essere causati da manipolazioni tariffarie o del cambio, derivano dalle svalutazioni interne che, abbattendo la quota salari, deprimono i consumi nazionali e aumentano il tasso di risparmio. Questo a sua volta innesca un deflusso di capitali dai paesi esportatori verso quelli importatori, che, ben lungi dall’aumentare la produttività in questi ultimi, si risolvono in una contrazione dei risparmi, un effetto ricchezza fasullo e abbuffate di consumi.  Se si vogliono riequilibrare le bilance commerciali, bisogna quindi intervenire alla radice del problema, che sta nei mercati dei capitali

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha avvertito che le discussioni di questa settimana in Florida con il suo omologo cinese Xi Jinping saranno “molto difficili”, per lo più a causa di disaccordi commerciali. Ma prima che Trump possa ridurre il deficit commerciale asimmetrico dell’America – con la Cina o chiunque altro – deve prima riconoscere quelle che ne sono le vere cause.

A differenza del passato, la maggior parte dei deficit di oggi ha poco a che fare con la manipolazione dei cambi o con tariffe sleali.  Nel 19° secolo, il ​​principale strumento di intervento sul commercio sono state le tariffe sulle importazioni, che nel corso degli anni ’20 e ’30 del Novecento sono state integrate in misura crescente con manipolazioni delle valute.  Si è andati avanti in questo modo anche nel 20° secolo. Anche se nel periodo post-Bretton Woods gli accordi internazionali – di solito promossi dagli Stati Uniti – hanno cominciato a limitare l’uso delle tariffe, Europa e Giappone, approfittando delle esigenze della guerra fredda, hanno protetto per decenni le industrie nazionali mantenendo le loro monete sottovalutate rispetto al dollaro.

Durante questo periodo gli squilibri commerciali sono stati in gran parte determinati direttamente dalle differenze di costo dei beni scambiati, mentre il capitale scorreva da un paese all’altro principalmente per bilanciare i flussi commerciali. Oggi però le condizioni sono cambiate drasticamente. I flussi di capitale sovrastano i flussi commerciali, e le decisioni di investimento dei gestori di fondi determinano la loro direzione e dimensione.

Questo ha profonde implicazioni per il commercio. Grandi e persistenti surplus commerciali come quello della Cina nei confronti degli Stati Uniti non sono più la conseguenza di misure esplicitamente mercantiliste. Sono invece guidati da politiche che alterano i tassi di risparmio nazionali tramite sussidi alla produzione a spese delle famiglie.

Si prenda la Germania, per esempio. Dopo un decennio di deficit commerciali ed elevata disoccupazione, nel 2003-05 i leader di Berlino, preoccupati, hanno implementato le riforme del lavoro, il cui effetto principale è stato quello di indebolire la crescita dei salari. Mentre la disoccupazione scendeva e i profitti aziendali aumentavano, le riforme hanno anche ridotto la quota di reddito nazionale destinata alle famiglie, trascinando verso il basso anche la quota dei consumi.

Le imprese tedesche, benedette da profitti più elevati, hanno risposto a questa situazione in maniera poco utile. Hanno pagato i propri debiti invece di investire i profitti, aumentando la quota del reddito nazionale dedicata al risparmio. Come il divario crescente tra risparmi e investimenti in breve tempo diventava tra i più alti nella storia della Germania, così lo stesso avveniva per il surplus commerciale tedesco. Le banche tedesche esportavano i risparmi in eccesso negli altri paesi europei, non più protetti dagli aggiustamenti dei tassi di interesse e del cambio, aboliti dalle regole dell’euro. Nel 2009, dopo che l’insolvenza ha impedito uno dopo l’altro ai paesi europei di assorbire ulteriormente lo tsunami di capitali tedeschi in uscita, questi si sono spostati verso i paesi al di fuori dell’Europa.

Anche se le esperienze di Cina e Giappone possono sembrare diverse all’apparenza, nell’impatto sono state molto simili. La Cina, per esempio, ha severamente compresso i tassi di interesse al fine di stimolare la crescita. Allo stesso tempo ciò ha ridotto la quota di PIL cinese in mano alle famiglie ai livelli più bassi mai registrati e ha accresciuto i risparmi cinesi a valori record – così elevati che, anche con il tasso di crescita degli investimenti  più  veloce del mondo, la Cina ha comunque bisogno di grandi surplus commerciali per compensare la debole domanda interna.

Quello che ne consegue è causa di grande disorientamento per gli economisti che non capiscono come è cambiato il commercio. Quando nuovi capitali si riversano nelle economie avanzate che hanno sempre avuto un facile accesso agli investimenti – come ad esempio gli Stati Uniti e l’Europa meridionale – questi non fanno aumentare ulteriormente gli investimenti. Invece si verifica automaticamente una contrazione del risparmio.

Ci sono molti modi in cui questo può accadere. L’afflusso di capitali potrebbe aumentare il tasso di cambio reale, che riduce il risparmio aumentando il potere di acquisto delle famiglie. Può anche far abbassare i tassi di interesse e indebolire gli standard di credito, entrambe cose che incoraggiano le famiglie più agiate ad abbuffate di consumi a debito. Possono innescare un effetto ricchezza, con il denaro dall’estero che si riversa nel settore immobiliare e fa sentire le famiglie improvvisamente più ricche. Possono aumentare la disoccupazione, costringendo i lavoratori a far uso dei propri risparmi.

Questi, e molti altri, aggiustamenti automatici costringono i tassi di risparmio a scendere nei paesi che ricevono i capitali. Con i suoi mercati dei capitali flessibili e abbondanti e grazie allo status di valuta di riserva dominante, gli Stati Uniti sono particolarmente vulnerabili. Sono l’unico paese in grado di assorbire grandi quantità di capitali esteri, e oggi ricevono quasi la metà dei risparmi in eccesso di tutto il mondo.

Per quanto possa sembrare controintuitivo, se Trump vuole affrontare il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina, deve concentrarsi sul conto  capitale, non sul conto commerciale. Invece di imporre tariffe, dovrebbe attuare delle politiche che assorbano i risparmi esteri in un modo più produttivo per gli Stati Uniti, per esempio sfruttando i tassi di interesse storicamente bassi e investendo nelle infrastrutture tanto necessarie, i cui benefici economici sono troppo diffusi per poter essere “catturati” dal settore privato. Oppure la sua amministrazione dovrebbe cambiare il modo in cui gli squilibri del risparmio vengono trasmessi negli Stati Uniti, ad esempio tassando i flussi di capitali, come gli Stati Uniti facevano negli anni ’60.

Ciò che Trump dovrebbe evitare sarebbe di farsi coinvolgere in una guerra tariffaria colpo su colpo con la Cina, che non affronta le vere fonti degli squilibri. In un mondo in cui i flussi di capitale sovrastano i flussi commerciali, gli squilibri commerciali sono guidati dagli squilibri del risparmio globale, e gli Stati Uniti non possono risolvere i primi senza affrontare i secondi. Nulla di quello che lui e Xi discuteranno questa settimana potrà cambiare questo semplice fatto.

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