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Anti euro: li chiamavano Trinità

Riflessioni a margine del sessantenario dei Trattati di Roma

di Marco Palazzotto

Lo scorso 25 marzo si sono svolte le celebrazioni per il sessantenario dei Trattati di Roma. Ne ha parlato martedì scorso Giovanni Di Benedetto qui.

Poco si è discusso sulle manifestazioni capitoline contro le politiche dell’Unione Europea. È vero che il numero dei partecipanti non ha superato le 10.000 unità, ma ciò non dovrebbe rappresentare un motivo per tacere la notizia. Mentre i nostri giornali hanno dedicato scarsa importanza all’argomento, il Ministero dell’Interno ha lavorato alacremente. Non si spiegherebbero altrimenti i numerosi fogli di via e i sequestri preventivi emessi dalle forze dell’ordine nei confronti di centinaia e centinaia di manifestanti (le fonti della Questura di Roma indicano circa 3000 fermati), ai quali è stato vietato di esprimere le proprie opinioni pubblicamente. La sensazione è che il governo abbia tenuto alto il “livello di sicurezza” (si tratta di fermati per possesso di fumogeni o soggetti presenti  nelle liste della polizia per motivi “ideologici”) per evitare che si accendessero i riflettori sui contestatori, invece che sui politici europei chiusi nei palazzi a festeggiare.

Ciò che riteniamo degno di interesse non sono tanto i numeri dei cortei, ma le organizzazioni politiche presenti.

Sostanzialmente il fronte dei manifestanti anti UE era composto da tre categorie. Una parte che fa riferimento a pezzi di Sinistra Italiana, di Rifondazione Comunista, a CGIL, al movimento fondato dall’ex ministro greco Varoufakis (DiEM25). Questi rappresentano un gruppo molto eterogeneo che chiamerò per semplicità i riformisti dell’UE.

Una seconda categoria raccoglie, analogamente alla prima, consensi trasversali: dal filosofo Diego Fusaro, all’economista Alberto Bagnai, passando per la Lega Nord e Fratelli d’Italia (li chiamerò per semplicità No Euro).

Infine una terza categoria, a mio parere più degna di attenzione, fa riferimento agli anti capitalisti. Quest’area raccoglie i Sindacati di Base, la Rete dei Comunisti, centri sociali e movimenti, più attenti alle trasformazioni e contraddizioni del capitalismo contemporaneo nel nostro continente, e che d’ora in poi chiamerò Eurostop, per via del nome della campagna alla quale hanno aderito diversi soggetti.

Le tre categorie appena descritte propongono, per rompere con le politiche di austerità, tre diverse soluzioni. La prima più europeista, che ahimè raccoglie anche la FIOM e i partiti di sinistra radicale, crede ad una modifica – anche attraverso la “disobbedienza” – dei trattati europei, senza  modificare l’apparato istituzionale. Ciò sarebbe auspicabile anche per evitare le derive nazionaliste e xenofobe che coinvolgono ormai tutti i paesi membri. Questa compagine politica però sembra confusa dal punto di vista teorico. Non sono chiari i motivi per i quali le istituzioni politiche, economiche e finanziarie europee debbano tornare sui loro passi e modificare totalmente un impianto che è stato pensato e costruito per perpetrare un certo modello funzionale all’attuazione del neoliberismo. Modello, inoltre, basato sul conflitto contro le classi lavoratrici e a favore di un capitalismo sempre più verticalmente integrato verso il centro Europa. I riformisti infatti sembrano confusi su cosa stia succedendo al capitalismo europeo. Non è solo un problema di evidenziare l’inefficacia delle politiche di austerità (che anche il Fondo Monetario Internazionale ormai ammette). La confusione teorica all’interno dei riformisti probabilmente è dovuta alla eterogeneità dei soggetti che la compongono. Dentro troviamo frammenti di sinistra radicale italiana che per molti anni hanno sostenuto governi e amministrazioni locali del PD o comunque liberali (come ad esempio è successo a Palermo e Catania). Inoltre troviamo anche componenti dell’eurocomunismo e post-operaismo e infine del sindacalismo consociativo. Tali componenti continuano ad appoggiare le politiche di Alexis Tsipras (che palesemente ha fallito e continua a massacrare le famiglie greche con tagli imposti dai memoranda scritti dalla Troika, in continuità col PASOK) o trovano una nuova frontiera antagonista in Podemos in Spagna (partito che sembra assumere i connotati di un partito populista anti-casta come il Movimento 5 Stelle). Dentro questo potpourri non troviamo alcuna chiara ed univoca visione di come debba essere articolata una società europea più equa e più giusta, se non con qualche slogan del tipo: benecomunismo, società dei diritti, welfare, redistribuzione di ricchezza, carta dei diritti, ecc. ecc. ecc.

La seconda categoria, che ho chiamato No Euro, comprende anch’essa vari pezzi eterogenei, ma tutti uniti dalla parola d’ordine “sovranismo”. Dentro ci troviamo esponenti di alcuni minuscoli partiti che ancora usano il simbolo della falce e martello, alcuni pezzi di Sinistra Italiana che si riuniscono attorno all’ex viceministro nel governo Letta, Stefano Fassina, alcuni economisti keynesiani, passando per i partiti di destra come la Lega nord e Fratelli d’Italia. Intercettando anche consensi nel Movimento 5 Stelle. Questo fronte è riunito sotto lo slogan della sovranità monetaria. Secondo i No Euro si può uscire dalla crisi europea solo ritornando al protezionismo economico, proponendo l’uso di valute diverse e rompendo con l’Euro. Un ritorno alla sovranità monetaria porterebbe benefici dovuti ad una svalutazione della nuova valuta che si adeguerebbe ai differenziali di prezzo tra le diverse economie. Tali aggiustamenti valutari, influenzati dalle dinamiche di mercato, rilancerebbero le esportazioni e di conseguenza la produzione industriale e la domanda aggregata, sacrificando sul campo una iniziale - ma non devastante secondo i nostri - inflazione. Tali soluzioni però vengono articolate in modo diverso all’interno del paradigma No Euro. Ci sono alcuni che propugnano il ritorno al controllo pubblico dell’economia. Sembra però che il problema sia l’Euro e non le istituzioni europee. Alcuni suggeriscono la rottura del vincolo valutario ed una riforma delle istituzioni europee. Secondo le estreme frange, invece, occorre ritornare alla chiusura delle frontiere, anche nei confronti dei migranti provenienti dai paesi colpiti dalla guerre o dalla povertà. Spesso queste frange guardano di buon occhio il revanscismo lepenista, scadendo in una specie di rosso-brunismo.

Sul fronte Eurostop, la analisi sembrano più solide e logiche delle precedenti. Il gruppo si distingue per i tre NO: no all’Euro, no alla UE e no alla NATO. Sicuramente siamo di fronte ad un problema, quello europeo, che occorre analizzare da un punto di vista di classe e quindi anticapitalista. Qualunque forma di riformismo dei trattati è insufficiente a modificare la tendenza alla riduzione delle tutele sociali e lavorative. La costruzione dell’Europa unita deriva da una volontà ben precisa del capitale franco-tedesco di spartirsi il controllo politico europeo, un connubio tra modello militarindustriale francese e modello mercantilista tedesco. Pensare ad una riforma dei trattati significherebbe chiedere al suddetto asse di modificare i propri paradigmi. Sarebbe come chiedere in Italia il socialismo attraverso la riforma costituzionale o il referendum. Il polo Eurostop, altresì, sostiene la rottura con le istituzioni europee, unico modo per porre fine all’agonia recessiva che viviamo da dieci anni e all’attacco al mondo del lavoro che sperimentiamo da più di venti. I vantaggi della permanenza dell’Italia e degli altri paesi sono inferiori agli svantaggi e quindi sarebbe più utile ripartire da una ricomposizione sociale che abbia i caratteri nazionali.

A nostro modo di vedere, il nodo non è rompere o non rompere con l’Euro o con l’UE oggi, domani o dopodomani (Euro ormai feticcio delle varie tifoserie che si contendono lo scettro della migliore analisi econometrica sui vantaggi e svantaggi derivanti dalla “exit”). La riflessione che a parere nostro sfugge riguarda la situazione dei rapporti di forza tra le soggettività che compongono il sistema produttivo europeo. Ci sembra scontato che un orizzonte di “integrazione europea” sia impensabile nei prossimi decenni, non c’è stato in questi 60 anni, non ci sarà in futuro. Perfino le élites parlano apertamente di “Europa a più velocità”. Come se nel capitalismo potessimo aspirare ad una “velocità unica”. Non si può che sperare e lavorare per costruire un soggetto sociale compatto che imbocchi la strada del conflitto in tutti gli strati della produzione e della società, e che faccia della propria coscienza il punto di partenza per una nuova idea di produzione. Pensare ad un’Europa dei diritti (al lavoro, alla cittadinanza, al welfare, ecc.) è pensare a un’Europa finta che non esisterà mai, perché i diritti – in un sistema di produzione borghese – sono per pochi e non per tutti.

Lo smantellamento dell’UE va quindi considerato come obiettivo, ma sarà irrealizzabile senza aver costruito un’entità capace di influire sui processi di cambiamento e senza poter incidere sul soggetto che guiderebbe l’eventuale disfacimento dell’organizzazione europea.

In sostanza, il federalismo solidale ed egualitario che desideravano i padri fondatori dell’Europa non sarà mai realizzato, secondo quanto dichiarato dagli stessi politici (l’Europa a più velocità) e una retromarcia almeno sulle politiche valutarie arriverà a breve (già la BCE ha sconfessato se stessa con i continui interventi di politica monetaria espansiva post-crisi, risultati inefficaci). Non ci resta allora che lavorare per un fronte unito anti UE, che raccolga gli strati sociali più penalizzati nel conflitto avviato dai comitati d’affari europei. Fronte ampio ed internazionale che però dovrà colpire nel momento giusto, evitando rocamboleschi protezionismi dentro i confini nazionali che si potrebbero ritorcere contro, e in maniera più recrudescente, sulle classi lavoratrici.

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