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coordinamenta

Cambiare obiettivo per confermare la strategia

di Elisabetta Teghil

Anche nella stagione neoliberista il capitale non ha altre opzioni che scatenare una guerra mondiale per risolvere i propri problemi. I primi interessati sono gli Stati Uniti.

Ma la strada percorsa finora dalle amministrazioni statunitensi, fino al presidente Obama compreso, era stata quella di porre le premesse per arrivare ad una guerra di aggressione, naturalmente “motivata” creando incidenti ad hoc, contro la Russia. L’ amministrazione Trump ha rotto con questa linea politica ed ha individuato nella Cina il nemico principale e più importante per gli Usa.

Questo è il senso dell’attenzione ai rapporti con la Russia. Non un abbandono della politica tradizionale nord americana, non l’opzione per il dialogo, ma un cambiamento del nemico principale da abbattere. Pertanto sono errate le letture fatte dopo il lancio di missili Tomahawk ordinato da Donald Trump contro una base governativa in Siria incardinate fondamentalmente su due tipi di commenti, i primi incentrati sul fatto che il presidente americano avrebbe mostrato il suo vero volto a dispetto di tutte le esternazioni di voler trovare un miglior rapporto con la Russia, gli altri focalizzati sul cambiamento di registro nei rapporti con Putin a seguito delle pressioni delle lobby militari interne.

Semplicemente l’attuale amministrazione sta attuando quella che è una scelta di fondo che di fatto ne caratterizza la discontinuità con le precedenti.

Il ruolo degli Usa è sempre lo stesso, è il target principale che è cambiato.

Mentre prima, attraverso una serie di conflitti creati ad arte, dopo la Siria sarebbe toccato all’Iran, e usando la tattica del carciofo gli Stati Uniti avrebbero puntato alla Russia e per questa operazione serviva l’Isis, comunque lo si chiami, ora l’interesse si è spostato in Oriente con la Cina nel mirino. E la Corea del Nord dovrebbe assolvere la funzione che ha avuto la sfortunata Siria in Medio Oriente.

Questo cambio di strategia è dettato dalla convinzione che, in prospettiva, i pericoli maggiori verranno dalla Cina, non solo perché ha uno sviluppo economico molto imperioso e si sta imponendo come partner su molti scenari internazionali, ma perché si sta sganciano dal ruolo di paese che detiene tanta parte del debito statunitense e sta tentando di bypassare il dollaro come moneta di scambio a livello internazionale.

Ma per puntare dritti all’obiettivo gli Stati Uniti devono cercare di rompere l’alleanza sino-russa che negli ultimi anni si è andata molto rafforzando e che impedisce un attacco alla Cina. Questo è il senso delle presunte aperture alla Russia, unite alla politica del bastone e della carota.

La visita del segretario di Stato americano in Russia è stata un insieme di minacce e allo stesso tempo di promesse.

L’integralismo islamico viene evocato come pericolo anche nei confronti della Russia e completato con la abusata tattica delle rivoluzioni colorate e del megafono che viene dato agli oppositori. Tutto serve per far pressione compresi attentati, stragi, uccisioni di diplomatici, cadute di aerei nonché la vecchia ma rinnovata edizione della quinta colonna, cioè filo americani e magari qualche cosa di più, finanziati e formati da una miriade di Ong e sguinzagliati sul territorio russo. Questo è il bastone. La carota sono la Siria, la Crimea, l’Ucraina. Tanto le promesse statunitensi valgono come i trattati con i nativi d’America: carta straccia. L’importante è staccare la Russia dalla Cina.

In questo percorso, gli USA che vogliono pagare poco dazio umano e puntare solo sulla loro supremazia militare e tecnologica si sono dovuti inventare la Corea del Nord “pericolo per il mondo” rasentando il ridicolo che già li aveva coperti quando avevano presentato la Jugoslavia di Milosevic come un “pericolo per l’umanità”.

Ma hanno trovato due ostacoli per ora insormontabili: il rifiuto dei leader sud coreani e giapponesi di prestarsi e di prestare l’esercito per mettere piede in Corea del Nord. Non certo per motivi umanitari. I sud coreani dovrebbero combattere contro i loro fratelli del nord e contemporaneamente accettare il ritorno di soldati giapponesi sul loro territorio, nemici storici legati ad avvenimenti estremamente gravi. I giapponesi dall’altra parte dovrebbero riaprire una ferita mai rimarginata e rinnovare il ricordo particolarmente doloroso che è stata la loro presenza in Corea.

Evidentemente a casa loro non c’è un Napolitano che faccia per la Corea del Nord quello che è stato fatto per la Libia contro gli interessi stessi dell’Italia.

Lo scenario è molto complicato ma il cielo è gravido di nubi burrascose dovute soprattutto al fatto che la politica negli Stati Uniti dai tempi dell’uccisione di J.F. Kennedy non assolve più la funzione di mediazione degli interessi delle multinazionali rispetto alle classi e alla popolazione tutta, ma il potere viene esercitato direttamente dalle lobby economiche e in particolare da quelle militari e securitarie.

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